[...] Destituita dalla pubblicità nel suo ruolo naturale di portatrice di sogni e di valori, trasformati quei sogni e quei valori in puri segni senza significato, venduta alle masse la sua mistificazione costretta a prodotto nelle forme e nei contenuti, ciò che nell'arte di genuino restava ha cominciato così col diventare qualcosa d'incomprensibile agli occhi della gente e, quindi, a suscitare o spropositato rispetto o diffidenza e, in ogni modo, nell'uno o nell'altro caso, non quel rapporto di naturale complicità e contiguità che da sempre lega l'Uomo alle opere della creatività.

Il meccanismo è assai semplice. Se la pubblicità, l'informazione, i mezzi di comunicazione in genere cominciano a designare con il termine "artista" un (e sia detto senza discredito) qualsiasi interprete della canzonetta pop e ne riproducono le gesta col fine di fare consumare il prodotto che rappresenta; se gli stessi produttori s'ingegnano a costruire quel prodotto secondo canoni persuasivi che "scientificamente" porteranno le masse a consumarlo; e se infine il fenomeno non riguardasse solo quel cantante ma la quasi totalità dell'industria dell'intrattenimento, è allora facile immaginare che quando quelle stesse masse verranno a contatto con un artista vero e proprio, con una vera opera d'arte, bene che vada non potranno riconoscerlo, parlerà un linguaggio a loro alieno, non conforme alle regole; la sua rappresentazione del mondo non sarà la rassicurante euforia della normalità, ma qualcosa che comunque incute incertezze, che insinua dubbi e perplessità, che pone quesiti e che, infine, spaventa.

Paradossalmente proprio in quest'ultimo secolo, in rapporto all'enorme crescita dell'istruzione, si è effettivamente verificata una netta diminuzione dell'incontro tra arte e pubblico diffuso. Diminuzione che, oltre a mettere in discussione il valore e i significati di questo tipo di istruzione (d'altronde conforme alla logica dell'industria culturale dominante), non può non far pensare ad un'arte e ad una cultura sempre più distanti dalle possibilità e dalle esigenze di gran parte della popolazione. Esigenze, sì. Ineluttabile bisogno genetico, dicevamo: fin da quando il primo Uomo aprì gli occhi sulla terra e cominciò a tracciare strani segni sulla roccia. Esigenza di dire, lasciare, trasmettere e, di riflesso, conoscere. Esigenze che, dunque, possiamo ben capire e darlo come assunto imprescindibile, non siano né le soap-opera né i quiz a premio o i film da quattro soldi e due pernacchie -se non nella misura in cui questi sottoprodotti culturali rimangano come unica possibilità di scelta massificata in assenza di prodotti artistici reali. Se così non fosse, restando sempre sul nostro esempio del cantante, dovremmo dirci senza alcuno sconforto, che Jovannotti e Ramazzotti sono legittimi succedanei di Dante e Ariosto.

Questo non significa semplicemente che le masse si accontentano del lompo al posto del caviale ma che: o possono solo permettersi il lompo o non conoscono il caviale (valga come esempio per tutti la poesia dove, a fronte di tremila lettori per un libro di successo abbiamo, nel nostro paese, qualcosa come un milione di scrittori e poeti, o sedicenti tali -uomini e donne che in assenza di reale investimento e diffusione della poesia, sublimano facendosela da soli).

L'assenza quasi totale dell'arte e dei creatori -ad esempio dalla televisione o, per rimanere al nostro discorrere, dalla pubblicità- ha così contribuito a generare quell'inquietante vuoto di risposte (ma spesso, e ancor peggio, anche di domande) che è all'origine del senso d'insoddisfazione e di smarrimento dell'Uomo occidentale contemporaneo.

Certo, questa transumanza dell'arte verso la comunicazione non è impresa facile. Il semplice parlare di linguaggio artistico (sia esso poetico o visivo) sempre più incute nella nostra società un certo ingiustificato timore. Nella comunicazione poi questo timore si fa terrore puro. Di fronte al segno artistico s'innalzano, nella maggior parte dei casi, gigantesche barriere erette sulla motivazione che l'altro (il cliente, l'utente, il consumatore, il target di riferimento) non capirebbe.

Questa posizione, oltre a denotare una forte sottovalutazione dell'individuo e delle sue potenzialità, rileva quanto sia stato fatto nella direzione di un depauperamento del concetto profondo di cultura. Si è, in sostanza, venuta a creare un'immotivata divaricazione che da una parte elegge un certo tipo di cultura "alta" (presentata come irraggiungibile ai più e comprensibile solo attraverso un'approfondita conoscenza accademica), e dall'altra una cultura per così dire "bassa" o "popolare" (il cui calderone tutto può accogliere a prescindere persino dalle reali valenze culturali).

A partire da questa suddivisione si è poi strutturata una vera e propria settorializzazione che ha contaminato persino il mondo dell'istruzione e alcuni modelli dell'elaborazione pedagogica contemporanea. Si è in pratica cominciato a parlare, come abbiamo già detto, di cultura, o meglio di prodotti culturali, esclusivamente destinati a ristrette fasce della vita di un Uomo: una cultura per l'infanzia, una cultura per l'adolescenza... e via di seguito fino all'estrema unzione. Una vera e propria alterazione che nulla ha a che fare con quel concetto di cultura traducibile nel complesso (e non nella parzialità) delle manifestazioni della vita materiale, sociale e spirituale di un popolo.

Esiste dunque una sola cultura: né alta né popolare, né di serie "A" né di serie "B", né specificamente per l'uno o l'altro bipede abitante di questo misero pianeta. Un gomitolo d'infinite possibilità da districare verso la conoscenza di sé e degli altri (del mondo) che passa sì per la navigazione nei libri, nella pittura, nella musica e in tutte le rivelazioni dell'espressività umana, ma anche -per osmosi- dalla membrana dell'emozione, del pathos, dello stupore: ognuna in grado di costruire insiemi e sottoinsiemi, strati di memoria, visioni che rappresentano la materia prima dell'essere uomini.

La frammentazione della cultura imposta dal nostro modello sociale, per quanto comoda alla commercializzazione, si è rivelata e si sta rivelando nefasta a quello spirito proprio di ogni Uomo che Giordano Bruno chiamava Phantasticus ("un mondo o un golfo, mai saturabile, di forme e d'immagini").

La sempre più accentuata difficoltà di accedere alla cultura nella sua totalità, la sua proposizione frammentata secondo un'opinabile capacità di comprensione (torniamo a pensare ai tanti giovani allievi dei grandi filosofi ellenici che a dodici tredici anni discutevano di metafisica, di moti planetari, etc.), l'invasione d'immagini subculturali che ad ogni istante penetrano nella nostra intimità mentale sciabordando dai televisori, dai manifesti delle città, stanno riducendo al minimo il nostro immaginario potenziale sostituendolo con un immaginario limitato, confuso, prefabbricato.

Quante sono ormai le famiglie, i genitori, che hanno scoperto nella televisione una pratica ed efficiente baby-sitter? Magie e fantasie di colori capaci di acquietare e immobilizzare ogni bambino, magari alla mattina, appena sveglio, intanto che mamma e papà s'imbellettano per il lavoro, e sbrigano le faccende di casa, e fanno e disfano sommersi dalla frenesia della vita quotidiana, mentre un piccolo Uomo vede distruggersi e annientarsi tutto il capitale di simboli e immaginario accumulato coi sogni della notte, un mondo fondamentale per la sua crescita che s'infrange contro le onde del tubo catodico.

Diventa così sempre più urgente cominciare a pensare ad una pedagogia dell'immaginazione, tornando a riempire di contenuti il tessuto connettivo della gente: entrando nella quotidianità attraverso i mezzi di comunicazione, come attraverso l'istituzione scolastica, il lavoro, il divertimento; poiché questa ondata di "nulla", che da troppo tempo sta travolgendo il mondo occidentale, ogni giorno di più si rivela una vera e propria metastasi cancerogena che ci sta spingendo verso la più completa acriticità [...].



Massimo Silvano Galli

L'arte che rimane   

da: Making reality -saggio (1999) di Massimo Silvano Galli
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