Non è la paura della bomba, l'orrore delle detonazioni zampillanti di atomi ballerini, l'aria impregnata di chimica letale. Non siamo a progettare bunker soffocanti, scegliendo con scientifica acutezza scatole di fagioli liofilizzati e depuratori di piscio da cui ricavare acqua incontaminata. No! Non è questa la sopravvivenza che diciamo. Non impareremo a disegnare mappe sotterranee in cui orientarci per fuggire agli effluvi dell'antrace, delle peste, del vaiolo. E neppure apprenderemo a bollire il topo mutante e radioattivo, come insegna Philip Dick nelle sue "Cronache del dopobomba". Non ci interessa. Non di questa sopravvivenza qui si vuol narrare e non è questo il senso di tragedia che ci affligge. La "catastrofe", e accordateci la licenza di queste altisonanze, è già avvenuta e ogni giorno ci colpiscono potenti armi apparentemente invisibili ma non per questo meno devastanti. Armi contro le quali non ci vogliono né bunker, né maschere antigas, né ricette macrobiotecnologiche per campare cinque anni nutrendosi di blatte.

E' la tragedia della semplificazione, della riduzione al ribasso, della facilitazione a capire, della "sloganizzazione" del tutto propria di quella "Dittatura del Consumo" che si è insidiata come una metastasi in tutte le vicende dell'agire e del pensare umano. Ed è proprio alla comprensione di questa tragedia (invisibile, impalpabile e, certo, a molti, incomprensibile) e alle strategie possibili per accerchiarla, sabotarla, colpirla, combatterla che questo corso vuole mirare -anche nel senso più squisitamente balistico.

1. All'origine della semplificazione
Dove nasce dunque questa tendenza alla semplificazione? Da quale virus malefico si è propalata contagiando il mondo o, quantomeno, il mondo occidentale? Quale bomba è scoppiata e su quale Hiroshima si è disseminato il morbo radioattivo inficiando Uomo dopo Uomo, Sistema dopo Sistema?

Non è questo il luogo per una disamina approfondita, ne difettano il tempo e lo spazio. Diremo allora, lasciando all'arguto lettore il compito di riempire di profondità vocaboli che racchiudono vasti e articolati concetti e certo prendendo una tra le tante possibili direzioni d'indagine, che il virus nasce probabilmente all'interno di quel complesso organismo che conosciamo come "Capitalismo" (una sorta di strano animale il cui atteggiamento fisiologico tende, con una curva di crescita esponenziale , ad alimentarsi di cose animate e inanimate per convertirle in proprie vitamine e proteine -in merci) e da lì, di mutazione in mutazione, si configura e prende forma in quell'atteggiamento abbastanza recente che va sotto il nome di "Consumismo", quel consumismo che trova nella pubblicità, nella propaganda commerciale, la zanzara anophéles indispensabile alla sua propagazione. Ma andiamo con ordine.

2. Il potere del consumo
La Storia dell'Uomo è anche storia di conflitti: di guerre e spargimenti di sangue dove si conquista, si perde o si spartisce la possibilità di gestire porzioni di potere, ossia la possibilità di ergersi al di sopra dell' Altro in virtù di una triplice azione: il controllo morale (attraverso qualche forma di religione), il controllo fisico (attraverso le leggi dell'Uomo) e (in un'azione congiunta) il controllo delle idee e delle opinioni.

Da sempre questa triplice azione ha governato le vicende umane, costruendo dentro, attorno e contro sé molteplici universi culturali, con loro caratteristiche proprie, storicamente differenziate e ricche di quei particolarismi che erano, di fatto, una potenzialità espressiva, una potenzialità di verità complesse in grado di fornire risposte profonde ai bisogni dell'Uomo.

Oggi, di questo potere rimangono vaghe e sterili tracce. I suoi principi, su cui si era fondata una cultura millenaria, sono stati spazzati letteralmente via da un nuova forza che tutto ha omologato in una sola indifferenziata cultura. Un potere che non ha più bisogno né di leggi statali né di leggi morali, se non per tutelare l'esistenza e la riproduzione di quella nuova potenza con cui nei fatti le ha sostituite: il Consumo . Una fabbrica esaltante che produce opinioni semplici, conformi e facili da governare e controlla quelle opinioni che rischierebbero di minare il potere stesso . E' più di una fede, è più di una legge: è un bisogno insopprimibile, una dipendenza tossica nel cui nome tutto è concesso. Tramite la quale ogni soggetto acquista vitalità solo ed esclusivamente nelle modalità e nella misura in cui... consuma . Con la quale il baricentro delle necessità si è ampliato a dismisura racchiudendo nel concetto dell'indispensabile, il superfluo, il dispensabile; riducendo ogni Uomo ad uno schiavo, una vittima che, a differenza dei suoi predecessori, non vede più nemmeno il suo carnefice poiché tra lui e il suo carnefice non v'è differenza, entrambi accomunati in ritualità, desideri e comportamenti indistinti.

3. Il consumo e la pubblicità
Determinante al successo della logica del consumo è senza ombra di dubbio la pubblicità senza la quale, con tutta probabilità, il sistema capitalistico, così come oggi lo conosciamo, non avrebbe potuto sopravvivere al corso dei secoli e tantomeno avrebbe potuto sorgere dalla sua costola l'incanto del consumismo.

La propaganda commerciale, infatti, protegge il sistema stesso che l'ha generata secondo una precisa funzione: incita al consumo mostrando universi di felicità (dove la vita scorre piena di esaltazioni e senza alcun problema) e trasforma il consumo in strumento di sublimazione in grado di alleviare le frustrazioni dell'esistenza.

L'Uomo, afflitto e disilluso dallo scarto tra l'alienazione della propria vita e la vita continuamente e parossisticamente rappresentata dalla pubblicità come traguardo possibile, si rifugia nell'acquisto di beni che vive come indispensabili espedienti di gratificazione per sanare la propria insoddisfazione, per raggiungere quella vita possibile. Ma l'effetto "benefico" del consumo ha breve durata e l'acquisto di un prodotto riesce solo momentaneamente a sublimare tale insoddisfazione, cosicché ogni acquisto diventa di fatto una droga che produce insieme euforia e asservimento, spingendo ogni volta ad un nuovo acquisto.

Si tratta di un circolo vizioso che si apre e si chiude su se stesso portando ogni volta ad una nuova e insanabile insoddisfazione che rinnova, acquisto dopo acquisto, le sue vane promesse istillando continuamente la necessità di nuovi bisogni.

4. Il linguaggio della pubblicità
Nell'esercitare questo potere persuasivo la pubblicità utilizza specifici linguaggi e modelli sociologici e psicologici che hanno come comun denominatore l'obiettivo di rivolgersi (almeno per ciò che riguarda la gran parte dei prodotti) al numero più alto di persone possibili; e ciò sta a determinare la povertà intellettuale della comunicazione commerciale e l'esigenza di fondarsi su dati ed esperienze da tutti riconosciuti e riconoscibili.

L'uso dei soggetti e degli oggetti pubblicitari difficilmente, infatti, potrà proporsi in una veste che esca dai canoni estetici e morali consolidati, difficilmente potrà proporre una rappresentazione articolata e complessa dell'esistenza umana, poiché la sua cifra finale è quella della comprensibilità generale. Una comprensibilità capace di rassicurare e non di spaventare, di adulare e ossequiare, di semplificare e non di approfondire.

Per questo la comunicazione pubblicitaria si fonda su stereotipi adatti a promuovere in ugual misura e con la stessa efficacia il preservativo e la merendina nutriente. Poiché il problema non è il prodotto ma il suo essere contestualizzato in un clima di felice ed euforica "normalità" in cui il consumatore si senta magicamente rappresentato all'interno di un mondo per nulla diverso dal nostro, ma dove ogni suo problema, ogni sua angoscia, ogni suo desiderio può essere risolto con facilità, acquistando semplicemente una merce. In altri termini potremmo dire che la pubblicità, e la pubblicità moderna soprattutto, non costruisce la sua forza persuasiva sulle valenze qualitative del prodotto, ma sulla capacità di trasportare il consumatore in un mondo di magico realismo in cui il prodotto costituisce il terminale necessario per esaudire il transfer dalla favola alla realtà.

Tutto l'universo dei linguaggi, degli oggetti e dei soggetti che collaborano alla realizzazione del messaggio commerciale ha di fatto questo scopo: designare, rassicurare, ossequiare, adulare, semplificare e non significare nulla, non essere portatori di nessun segnale che vada oltre la magica rappresentazione di se stessi.

In realtà, quindi, l'annuncio pubblicitario non riguarda le caratteristiche del prodotto. Riguarda bensì le caratteristiche dei possibili consumatori di quel prodotto: immagini e slogan che non parlano affatto della merce vendibile, ma dicono tutto sui sogni primordiali dell'Uomo: trasformare la vita in un semplice e felice attraversare; eliminare qualsiasi complicazione, qualsiasi complessità che richieda tempo, fatica e sforzo.

5. Homo consumens
Ciò detto, soprattutto se pensato nei termini dell'intera valanga di messaggi pubblicitari e del loro ridondante e rumoroso proporsi quotidianamente, ha finito con l'incidere in maniera devastante sulle società trasformando i suoi stessi individui in soggetti pubblicitari, cioè in perfetti consumatori, completamente estranei a quella nozione di "consumatore sovrano" (idoneo, consapevole, preparato) che buona parte della cultura capitalista aveva, con forse troppo facile ottimismo, pronosticato.

E' successo che, a forza di applicare valori aggiunti (salute, bellezza, potere, etc.) al prodotto, non solo il consumatore ha finito col comprare solo quei valori aggiunti, ma anche il prodotto (in cui forse si poteva riscontrare un qualche valore culturale e un principio di scelta) è scomparso sotto il peso di quei valori. Tanto che oggi i messaggi pubblicitari altro non sono , nella loro gran parte, che comunicazioni di puro contatto, piccoli espedienti che si limitano a dire "Ci sono anch'io", spesso soprassedendo alla stessa presenza del prodotto; mondi virtuali che, nel loro caotico insieme, non orientano più a comprare un prodotto piuttosto che un altro, ma indistintamente a comprare, in altre parole ad interiorizzare quei valori e quei simboli necessari al funzionamento del sistema sociale di cui la pubblicità è forza motrice.

Così facendo la pubblicità ha finito per imporsi come elemento vitale del sistema immunitario del capitalismo, suo modello esemplare utile non solo a dettare le nuove regole conformiste e consumiste all'intero universo dei comportamenti e dei modelli sociali, ma anche a fagocitare quegli atteggiamenti e quei comportamenti che, pur proponendosi come antagonisti al sistema immunitario, una volta catalizzati dalla macchina della propaganda, ne escono rigenerati in un'operazione di istituzionaliz-zazione socialmente legittimante che ne cancella qualsiasi qualità propositiva.

Il riflesso di questa imposizione culturale, di questo modello strettamente funzionale alla logica della mercificazione, ha finito così per generare, nel tempo, vaste aree di interessato e/o interiorizzato e/o qualunquistico adattamento che si è allargato a dismisura fino a comprendere nei propri confini, tutte le aree dei codici comportamentali della vita sociale nel suo complesso.

6. Il consumo come dittatura
Ci troviamo per la prima volta di fronte ad un Uomo che -in poco più di mezzo secolo- è stato spinto a sostituire la propria connaturata tensione verso la ricerca della verità, la propria fede (fosse essa nell'Uomo o in Dio), la propria cultura su cui per millenni aveva eretto i propri modi di agire, di vedere, di capire, con nuove regole e nuovi comportamenti dettati -appunto- dalla frenesia e dall'alienazione del consumo. Un Uomo sempre più dipendente da oggetti e da simboli che non possiedono alcun valore, se non quei valori puramente fittizi che il sistema immunitario del capitalismo (la pubblicità) ci spinge a venerare, nessuno dei quali è tuttavia in grado di dare adeguate risposte ai bisogni e ai desideri profondi dell'Uomo.

Sulla base del concetto del dispensabile trasformato in indispensabile, ovvero sulla crescita esponenziale dei bisogni materiali, si sono erette le cosiddette democrazie avanzate le cui barbarie hanno saputo adempiere -come già presagiva Pasolini in tempi quasi insospettabili- a ciò in cui i peggiori totalitarismi avevano fallito: la distruzione sistematica e generalizzata delle differenze culturali assorbite nella falsa cultura del consumismo.

Attraverso il consumo si è realizzata una forma di dittatura potente e prorompente come mai l'umanità aveva conosciuto, una repressione che adempie al suo ruolo conservatore e antilibertario semplicemente elargendo -di volta in volta- la promessa di un nuovo consumo e garantendosi la propria incolumità, la propria continuità, attraverso l'imposizione di uno stile di vita che nessuno vorrà mai cambiare, poiché qualsiasi mutamento implicherebbe l'eliminazione di privilegi, certo fittizi, ma di cui non possiamo più fare a meno.

7. La pedagogia del consumo
Ma com'è stato possibile che un'intera umanità sia finita nelle mani di questa dittatura? Noi crediamo si possa parlare di una vera e propria pedagogia -assolutamente autoritaria- del consumo. Un sistema di segni ridondanti (di cui la pubblicità è l'esempio più eclatante) che con il loro discorso inarticolato, fisso, incontrovertibile, fatto fondamentalmente di immagini e slogan che dietro la falsa maschera dell'espressività, della creatività al servizio della comunicazione, della gioia di vivere, nascondono un mondo inespressivo, indifferenziato, triste, subculturale, disinformato e, soprattutto, immutabile.

Prima dell'avvento della "dittatura dei consumi" la cultura di un Uomo era strettamente legata al patrimonio delle sue esperienze dirette e a quel repertorio di conoscenze maturate nell'ambito degli studi e delle letture che aveva, o meno , avuto modo di compiere. Oggi l'esperienza diretta, le letture, gli studi sono, di fatto, elementi assolutamente minoritari di fronte al bombardamento di segni tutti orientati a spiegarci (venderci) l' esaltante mondo dei consumi.

Si pensi semplicemente al mondo dell'infanzia e al suo rapporto con quel fenomenale sistema educativo che è la televisione: accattivante, facile, suggestiva , cui si può assistere passivamente lasciandosi invadere dalla sua gioia e dal suo spronante divertimento. Ipotizzando (per difetto) che dai tre ai sei anni un bambino abbia frequentato la televisione almeno un'ora al giorno, possiamo dedurre che avrà assistito a qualcosa come diecimila spot pubblicitari. Se a questi aggiungiamo quelli radiofonici, quelli dei cartelloni stradali, ecc. le dimensioni del sovraccarico simbolico che mentre tenta di venderci merci e suppellettili impone un mondo, un universo di pensieri e di comportamenti, non hanno precedenti nella storia dell'umanità.

Immagini, slogan: segni linguistici che dicono senza dire sono penetrati nella profondità dell'Uomo diventato un vero e proprio paradigma pedagogico. Arte, politica, lavoro, educazione. Non c'è attività umana che oggi non risponda alla logica della comunicazione commerciale: semplificare, ridurre al minimo comun denominatore, per vendere (poco conta che si tratti di merci o di idee) al più alto numero di persone.

E allora, per vendere, per rivolgersi al numero più alto di persone possibili garantendosi anzitutto la loro comprensione e, conseguentemente, il loro acquisto, è necessario costruire messaggi semplici (come recita una delle più turpi leggi del marketing: "Fare in modo che anche l'ultima delle casalinghe possa capire"), messaggi di felicità, che non inquietino né spaventino, che promettano anzi tutto il bene possibile, immagini che bene rappresentano questo sistema dittatoriale dove tutti ridiamo alle stesse battute, leggiamo i medesimi best-sellers, ci vestiamo con gli stessi abiti alla moda, aspettiamo ansiosi il fine settimana e poi le vacanze estive e infine la pensione, perché questa vacazione del corpo e della mente ci han detto che è la "vita vera" e il nostro lavoro, il nostro faticare quotidiano, nient'altro che il necessario tributo per annetterci quei privilegi che ci rendono tutti omologhi agli altri.

8. Immagini vuote per una società malata
Questo sistema pedagogico che incita al consumo, questa dittatura che si è insidiata in tutti i linguaggi che strutturano la vita quotidiana riaffermando continuamente la possibilità concreta di tendere ad un cambiamento sostanziale delle nostre vite verso uno stato di felicità (benessere, amore, salute, ricchezza, potere, etc.) spacciato come eterna; questa promessa che tanto sembra allettante e portatrice di vitalità è, però, una promessa di morte. Uno stato immutabile, nel quale tutto funziona al meglio e dove non c'è spazio per la frustrazione è, infatti, uno stato che potremmo definire di "vita inorganica", un ossimoro che svela chiaramente la pulsione di morte che attanaglia le società occidentali nel loro complesso; poiché il tentativo di eliminare la frustrazione quale funzione logica nel gioco della necessaria dialettica che sottende ogni processo vitale, è una negazione della vita stessa. Non è, infatti, possibile pensare alla felicità se non partendo da una frustrazione preesistente, così come non è possibile -per dirla più banalmente- pensare alla luce senza il buio. Da ciò, non solo la falsa promessa di uno stato di felicità godibile aeternam, ma anche la sedimentazione -per quanto inconscia- di quel senso di morte che sovrasta le nostre vite e cui pare non ci si possa contrapporre se non affannandoci in continui atti dell'unica vita socialmente riconosciuta: ossia con continui atti di consumo -non a caso la nostra società sta facendo di tutto per svuotare la morte da ogni suo significato spronandoci ad abbracciare la felice e frenetica rincorsa verso un'immortalità che trova nelle merci e nel loro consumo il più evidente e glorificante monumento.

Ma non solo. Questa continua affermazione del consumo come espediente unico per giungere alla felicità e al benessere, questa presenza assillante di desideri esauditi, rappresentano -paradossalmente- il più grande ostacolo alla realizzazione della propria esistenza, alla propria libertà, alla propria felicità.

Poiché la vita, qualsiasi vita, è sforzo e lotta per affermarsi in quanto tale e sono le difficoltà che ognuno incontra in questa lotta che strutturano e amplificano, modificano le capacità di contribuire personalmente e collettivamente alla crescita dell'Uomo e delle comunità; allora una vita senza difficoltà equivale ad una non-vita; al rischio della degenerazione, all'insipienza e -ancora una volta- ad uno stato di morte.

Il cambiamento che ci propone questa società è dunque un non-cambiamento, poiché esso è visto esclusivamente nell'ottica di una proposizione continua di soluzioni che volgono ad un unico grande scopo: il piacere come stato immobile. Una società cioè , che mentre a tutti gli effetti parrebbe riaffermare continuamente la vita, altro non fa che proporre, in tutte le sue forme -compreso il tentativo di eluderla- la morte. Un mondo sovrabbondante di possibilità e di diritti, per così dire "gratuiti", che finisce inesorabilmente per produrre gravi deformazioni e sterili tipologie di vita umana.



Massimo Silvano Galli

Resistere... Resistere... Resistere   

da: Educare a Resistere -a cura di R. Mantegazza, ed. Terre di Mezzo, Milano (2003) di Massimo Silvano Galli
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