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La nostra esperienza formativa fin dai primi anni dell'infanzia, ma anche, poi, come genitori, zii, nonni, educatori, è costellata dalla presenza di poesiole, collage, sculture, dipinti e quant'altro, più o meno felicemente, emerge dai vari primari ordini scolastici in prossimità delle feste comandate. La grotta di cartapesta per il Santo Natale, il cuore di Das per la Festa

della Mamma, le uova colorate per la Pasqua... non c'è ricorrenza che sfugga a questa tradizione... tranne una... il 25 aprile, la festa di liberazione dal nazifascismo.

Per questo semplice motivo nei mesi scorsi ho proposto ad alcune scuole materne ed elementari (e, vorrei sottolineare, a titolo assolutamente gratuito) un breve percorso/laboratorio che provasse ad ovviare a tale mancanza realizzando, appunto per il 25 aprile, non un cuore, non un babbo natale, ma il Piccolo Partigiano di Pezza.

Inutile dire che la mia proposta non ha riscontrato alcun interesse, anzi, direi, viva disapprovazione, quando non scandalo.

Come stupirsi. Da tempo, ormai, fa bella mostra di sé e riscuote successo (e anche quest'anno non ha fatto eccezione) un certo revisionismo che cerca di appiattire il grande evento che ha introdotto il nostro paese (ma direi l'Europa tutta) nell'era della sua modernità democratica, riducendo -appunto- la lotta di liberazione dal nazifascismo ad uno scontro tra eguali anime che, in fondo, si sussurra con messaggi più o meno subliminali: "Hanno dato la vita, seppur per cause diverse"... e provare levarsi sopra questo brusio è impresa assai ardua.

Sembra, infatti, che un lavoro educativo in grado di aprirsi e aprire alla memoria di quegli eventi e al loro significato pedagogico, debba necessariamente costituire una presa di posizione politica, violando quella neutralità entro cui educatori e formatori spesso si illudono di agire.

Torna alla mente, allora, il monito di Don Milani: "Rispettiamo i morti, ma di fronte ai giovani non facciamo confusione. Non possiamo mettere sullo stesso piano l'aggressore e il suo aggredito, chi si è reso colpevole di massacri e chi è stato torturato"... e a poco più di quarantanni della sua morte tale monito sembra rivoltarsi in una paradossale profezia.

La macroscopica distinzione che separa chi esercita la violenza da chi la subisce, da troppi anni continuamente sottoposta a erosive piogge acide in cerca di trasversale consenso, si è consumata a tal punto che è sempre più difficile distinguere l'uno dall'altro -e non solo per la ritrita e smemorata categoria delle nuove generazioni.

Le conseguenze sono enormi e mica per quel che concerne una certa giustezza storiografica. La confusione, di cui Don Milani avvertiva il pericolo, insediatasi nel profondo della società civile ci consegna -ahimè- ben altro che la futile querelle storico-ideologica cui molti sembrano aggrapparsi quando, del tutto impropriamente, rivendicano nella somiglianza della morte la somiglianza della vita.

C'è in gioco, invece, proprio il dovere civile di evitare questa confusione, il dovere pedagogico di distinguere, sul piano morale, chi ha fatto la scelta di stare tra i torturatori da chi, invece, ha fatto la scelta di stare tra i torturati, o vi si è trovato suo malgrado.

Una distinzione ontologica, vorrei dire, e non certo per buttarsi a scoperchiare tombe e fare liste di buoni e cattivi, ma proprio per "rispettare i morti", tutti i morti, nell'unico modo che concesso a noi esseri finiti: rispettando i vivi e consegnando loro gli strumenti per progettare e costruire un mondo possibilmente migliore.

Quale società, invece, stiamo consegnando a coloro che verranno se non siamo in grado di raccontare di quegli uomini e quelle donne che hanno dato la vita per la libertà distinguendoli nettamente da coloro che sono morti negando, invece, il diritto a quella libertà? Che uomini saranno quegli uomini che non hanno appreso la differenza tra chi tortura e chi è torturato? Saranno indifferentemente torturati e torturatori con la stessa spensieratezza che purtroppo leggiamo in tanta cronaca attuale?

Dovremmo invece fare mitologia di questi uomini e di queste donne; sì, fare mitologia, nel senso di portare in luce quel complesso di idee, di personaggi, di avvenimenti, in grado di smuovere la nostra immaginazione esercitando una tale forza d'attrazione da farne modelli esemplari e di riferimento non di un'ideologia, ma di quello spirito interiore che muove le coscienze e le dispone al mondo e alle sue implicazioni.

E quale occasione migliore del 25 aprile per tramandare il mito della liberazione che si contrappone alla sragione dell'oppressione, della sottomissione, della barbarie?

Dovremmo impegnarci e impegnarci davvero tutti affinché un giorno di fine aprile, un figlio di questo mondo, arrivi dalla scuola col suo Piccolo Partigiano di Pezza da infilare nella bacheca della mamma, insieme al pupazzo di Babbo Natale e all'imperitura memoria di domani.



Massimo Silvano Galli

Il Piccolo Partigiano di Pezza  

PER UNA MITOLOGIA DELLA LOTTA DI LIBERAZIONEdi Massimo Silvano Galli
 
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