[...] Tuttavia, l'arte, elemento inscindibile dal concetto di umanità (tanto da ritrovarlo, insieme alla religione e a pochi altri, in tutte le civiltà sinora antropologicamente esplorate), fondamentale ingrediente per allungarsi nello sforzo e raggiungere la meta dell'essere umano, del diventare umani, sta progressivamente perdendo la sua valenza sulla nostra vita reale.

Viviamo nella società della conoscenza parcellizzata, dicevamo, e sempre di più ci troviamo a fare i conti con un Uomo incapace di proporsi al di fuori del suo -sempre più piccolo- involucro di esperienze personali, incapace di accumulare sapere attraverso l'immaginazione e la frequentazione dell'immaginario.

Insieme alla domanda: "Perché leggere una storia, osservare un dipinto, guardare un film, ascoltare un brano?", avanza inesorabilmente l'impossibilità di rispondere se non rifugiandosi nel puro e sterile alibi dello svago e dell'intrattenimento.

"Ma per quale motivo" ci si potrebbe chiedere "uno dovrebbe accumulare esperienze attraverso l'immaginazione? In un'epoca che ha completamente associato il concetto di esperienza al concetto di fisicità (si pensi alla realtà virtuale quale esempio estremo), come è possibile pensare di fare delle esperienze solo attraverso la nostra immaginazione e, soprattutto, a quale scopo?".

La casistica di risposte è molteplice, possiamo provare a sintetizzarne almeno tre fondamentali.

La prima è che ognuno di noi, sia esso ricco, felice, alto, biondo, bello, simpatico, oppure il più miserrimo tra gli uomini... insomma, in qualsiasi situazione si trovi, vorrebbe -anche solo per un attimo- una vita diversa da quella cui è costretto. L'arte dona ad ognuno di noi la possibilità di evadere da quello che siamo, la possibilità di realizzare i nostri desideri più inconsci. Ma non solo... raccontare storie (in qualsiasi forma e con qualsiasi strumento si voglia) è stato, fin dagli albori della civiltà umana, la sola possibilità di fermare il tempo, di fossilizzare le cose che ci accadono intorno, le vite che scompaiono; in poche parole: creare la memoria storica (una bellissima testimonianza, in questo senso, è "Il Narratore Ambulante" di Mario Vargas Llosa -scrittore peruviano-, dove si narra di una tribù amazzonica che ha istituzionalizzato questa figura di narratore che vaga da un villaggio all'altro portando con sé l'eco delle cose che sono successe: raccontando le morti, le nascite, le guerre, i miracoli e, soprattutto, i miti, le leggende che spiegano le origini del mondo e dell'Uomo, la storia galoppante dal principio sino al suo narrare. La gente lo ascolta e, grazie ai suoi racconti, fissa nel tempo e per sempre nomi e fatti che poi, a sua volta, racconterà ad altri).

Attraverso l'arte, noi veniamo a conoscenza di cose che non sapevamo e c'immergiamo in vite che, altrimenti, ci sarebbero impossibili. L'arte, cioè, ci aiuta a conoscerci e a fissare esperienze al di là del tempo e dello spazio. Possiamo vivere con Tucidide tra le sanguinose guerre del Peloponneso, o immergerci con Picasso negli abissi imperscrutabili di una realtà scomposta, oppure andare con Defoe su un'isola deserta cercando, novelli Robinson Crusue, di sopravvivere tra le meravigliose insidie della natura. È così che l'arte diventa anche introiezione di paesaggi, luoghi, emozioni, avvenimenti e, in questo senso, espansione della nostra biografia, della nostra esperienza personale.

Una vita priva di dimensione artistica schiaccia l'individuo nell'appiattimento delle stretta realtà fenomenica, privandolo d'ogni possibile pluridimensionalità. Confrontarsi con mondi inesplorati e inesplorabili, equivale ad essere contemporaneamente più persone, a guardarsi dall'interno e dall'esterno e, quindi, a conoscersi e a conoscere meglio, in modo naturale: proprio come quando le esperienze del quotidiano ci piombano addosso e si radicano talmente dentro di noi da diventare parte del nostro corpo.

Tanto più che, quando si parla di arte, non si dovrebbe mai dimenticare che la sua esistenza non si esaurisce semplicemente con il fautore dell'opera e con l'opera, ma necessita di un pubblico, di un fruitore, di un lettore, senza il quale l'opera e l'artista perderebbero di senso. L'opera d'arte stabilisce in pratica un contatto tra il mondo dell'artista e il mondo del fruitore e li unisce, li lega, tramite le sue esperienze, i suoi messaggi e significati.

Si tratta ancora una volta di un processo di comunicazione a doppio senso di circolazione. L'artista, infatti, trae la sua opera decifrando i messaggi che gli giungono dal mondo del fruitore e ad esso li restituisce in forma nuova, ampliando e approfondendo il loro raggio d'azione e quindi chiudendo e contemporaneamente riaprendo il cerchio di un continuo riproporsi e ricollocarsi, ri-vedersi. Una specie di partita a ping-pong dove ogni risposta ne genera una nuova con la quale, di volta in volta, si sono misurate, si misurano e s'identificano (assorbendo) le epoche dell'Uomo.

A questo punto sarà chiaro a tutti come la visione dell'arte e della cultura sin qui descritta sia in assoluta antinomia con i valori, le credenze e le ideologie con cui ogni giorno ci scontriamo nel nostro comune dibatterci sul precario vascello dell'esistenza.

L'incredibile propulsione scientifica e tecnologica del nostro secolo e soprattutto degli ultimi cinquant'anni ha portato con sé l'idea generalizzata che la sola imponente luce delle scienze avesse la facoltà di abbagliare gli antri più oscuri e imperscrutabili dell'essere umano e che, grazie ad esse, fosse possibile esaudire ogni bisogno fisico e spirituale.

Tuttavia, questo mito della scienza moderna applicata (che sembra escludere a priori proprio quelle discipline umanistiche che hanno saputo indagare nei fondali dell'Uomo: la pittura, la poesia, la letteratura, la musica, fornendo -di epoca in epoca- non una fredda diagnosi del malessere e dei desideri dell'Uomo, ma l'espressione viva di quel malessere e di quei desideri, la loro descrizione carnale e religiosa, tanto vicina all'essere Uomo da non aver bisogno di spiegazioni) mostra ogni giorno di più la propria fragilità.

Noi siamo i primi esseri viventi la cui esistenza potrebbe terminare con la vita dell'intera umanità. Minacce apocalittiche fino a ieri sconosciute o relegate nel mondo del mito e del misticismo, oggi si presentano al nostro inconscio quali palpabili probabilità. Guerre nucleari, inquinamento totale, sovrappopolazione, ognuno di questi fenomeni, agendo separatamente o insieme, potrebbe decretare l'estinzione della vita sulla terra e a nessuno prima di noi è mai capitato di vivere con questo perenne senso di realistica e palpabile precarietà e nessuno prima di noi si è mai trovato così sguarnito di possibili risposte da contrapporre a questa sensazione.

Uno stato di confusione pressoché costante presidia quotidianamente le nostre vite, ma mentre si abbandona il grande contenitore dell'arte quale strumento di indagine e di conoscenza per gettarsi tout-court tra le braccia meccanicistiche delle scienze e delle tecnologie, si perde progressivamente la capacità di rispondere alla gran parte dei problemi che attanagliano l'Uomo, cioè la capacità di indagare lo spirito. Non importa quanto ce ne rendiamo conto, quanto riusciamo ad esserne consapevoli. Ciò che conta è che nessuno possiede gli strumenti per contrastare questo inesorabile processo di decomposizione, poiché esso è strettamente connaturato al sistema sociale in cui viviamo. Un sistema il cui scopo principale è -appunto- la mercificazione del tutto e nella cui spirale hanno finito col restare intrappolati gli stessi artisti e le loro opere.

Stabilito che società e arte vanno di pari passo influenzandosi e emulandosi a vicenda, non sorprenderà dunque il fatto che il creatore contemporaneo, l'artista che campa della sua arte nella civiltà del capitale, sia totalmente invischiato all'interno di quello stesso sistema produttivo che lo alimenta e che pone come esorbitante finalità, per sé e per i suoi bipedi esemplari, il guadagno.

Questa affermazione è però vera a metà e vedremo più avanti come il creatore, nei fatti, mentre da una parte partecipa alle filosofie e alle ideologie correnti, dall'altra vi si nega con l'unica cosa di sé che porterebbe dei reali benefici alla società: la sua opera.

Detto questo ci limiteremo per ora ad osservare (con le dovute generalizzazioni) come questo suo partecipare ai meccanismi dell'avere abbia finito per trasformare la sua arte in un prodotto imposto dal mercato o -molto più raramente- che è riuscito a imporre sul mercato; finendo, nell'uno o nell'altro caso, per trasformarsi in una piccola azienda per i bambini ingordi del collezionismo. Creatori quindi che, una volta inventato il bacio Perugina, non possono nemmeno pensare di interromperne la produzione, pena l'uscita dal mercato.

La storia del nostro più recente passato ci insegna ineccepibilmente che uno dei nodi cruciali dell'arte contemporanea (dai primi anni del secolo, ma soprattutto con la fine della prima guerra mondiale e poi, negli anni immediatamente successivi alla grande crisi del Ventinove) sta nell'aver proceduto verso una continua e inesorabile conciliazione tra il concetto di prodotto e il concetto di opera d'arte; a tutto vantaggio del mercato e a tutto svantaggio dell'arte e del suo intrinseco aspetto di caleidoscopio della conoscenza diffusa -persino nei casi in cui l'intento artistico virava proprio in direzione di una contestazione del concetto di arte come prodotto (si veda Andy Warhol, annessi e connessi).

Così oggi, l'opera d'arte, diventata un prodotto a tutti gli effetti, fatica sempre più a mantenere viva quell'anima, quell'afflato tipico delle elaborazioni dell'ingegno creativo applicato. O meglio, una volta conclamato l'ingegno, subito si pietrifica in marchio, in griffe, in una firma che tira, che piace, che vende e che, quindi, diventa immediatamente immutabile, fossilizzando -nell'attimo del successo certificato- il punto di arrivo della ricerca di nuovi e rigenerativi modelli linguistici, sociali, filosofici e (perché no) estetici -per tacere del caso in cui manca persino l'ingegno artistico e vi si supplisce costruendone uno ad hoc con una precisa strategia di marketing, proprio come se di prodotto si trattasse.

La cultura diventata industria si trova dunque (per natura dell'industria stessa) a dover fare i conti delle entrate e delle uscite. Si sposa alla logica dell'industria e inizia la produzione in serie dei suoi manufatti, poi passa a dettare le regole per la loro realizzazione e, infine, si trova a costruire le biografie dei suoi autori.

È a questo punto che cultura e prodotto si identificano totalmente e chiamano a soccorso la pubblicità per moltiplicare i numeri sulle calcolatrici. Ma ormai il prodotto si è snaturato, degradato, e la pubblicità altro non può che rincarare la dose assumendosi il ruolo di divulgare ciò che dell'arte rimane: il kitsch.

In un modo o nell'altro tale processo porta inevitabilmente fuori dalla concezione dell'arte come creatrice di archetipi, per consegnarci un'arte come "fabbrica" di stereotipi.

Se concordiamo con l'idea dell'arte come qualcosa in grado di decriptare i messaggi subconsci delle società e di rigettarli in forme estetico-linguistiche anticipando e indicando i costumi e le tendenze di un'epoca, sarà facile comprendere come essa non possa adeguarsi alla rigorosa legge della domanda e dell'offerta se non a rischio di perdere queste sue caratteristiche peculiari.

Diventata un prodotto alla stregua della mortadella, anche l'opera d'arte non può che sottomettersi al gusto, al linguaggio, ai costumi della media della massa che struttura la domanda. Nel medesimo tempo, se il creatore vuole campare si vede costretto a fare propria quella legge di Weber che vuole che funzioni, che sia valido, solo ciò che vende. Si crea cioè un breafing inconscio, una serie di postulati, di leggi non scritte cui, per amor della sopravvivenza, il creatore deve sottomettere il proprio ruolo di innovatore e propositore. Così facendo il linguaggio delle sue opere discende la scala della comunicazione per diventare ciò che la media della massa vuole vedere, sentire, leggere; e le parole, i segni, le immagini, i suoni di quel linguaggio perdono qualsiasi valenza di significato per trasformarsi in pura segnaletica priva di qualità. Ma non solo.

Proprio per le necessità intrinseche al prodotto e alle sue esigenze di commercializzazione l'opera d'arte, da unica e irripetibile, acquista quella fisionomia di marca, di griffe, che costringe i creatori a riprodurre continuamente il medesimo quadro, il medesimo libro, il medesimo disco, il medesimo film; poiché -una volta statuito che quello è il prodotto che vende- la sua formula vincente diviene il primo promotore di se stessa, nella tacita promessa fatta al fruitore di riunire nel prodotto che verrà i medesimi ingredienti.

Nello stesso tempo è oltremodo interessante osservare come, mentre da una parte l'opera si riduce a mero prodotto e l'immaginario collettivo si popola di figure subculturali portatrici di vuoto, dall'altra parte il creatore si trova nella necessità di confermare e aumentare la sua credibilità e, in virtù di questo: o si identifica totalmente col fruitore ("È uno di noi"), cambiando, di fatto, prospettiva; o si isola in un distacco molto intellettuale di vendibile quanto apparente superiorità.

L'assunzione da parte del fruitore di ciò che è spacciato come arte ma che in realtà è mortadella prepara poi all'acquisto passivo del prodotto che più interessa ai mercati: la mortadella vera e propria [...].



Massimo Silvano Galli

L'arte della mortadella  

da: Making reality -saggio (1999) di Massimo Silvano Galli
INDEX | RETURN | CONTACT