[...] Questa necessità di comunicare, questa voglia di dire, di essere presenti con il proprio sentire e vedere allo svolgersi del quotidiano, ha radici insite nell'impossibilità -taciuta ma imposta inderogabilmente- di esistere come pensanti personalità al di fuori dello stretto contesto individuale, di poter disporre cioè di un livello di comunicazione più ampio e incisivo. La storia di quest'ultimo secolo sta tutta qui: da una parte si insiste sul concetto di democrazia e dall'altra (con metodi subdoli ma efficaci) la si nega.

Nei primi anni in cui si andava concretizzando in filosofie e strutture il capitalismo industriale, il rapporto tra chi deteneva i mezzi di produzione e chi li faceva funzionare era, né più né meno, che una riproduzione aggiornata dell'arcaico rapporto tra il padrone e lo schiavo. Il lavoratore era identificato nell'ottica di una macchina estremamente vantaggiosa, tanto da lavorare tredici, quattordici ore giornaliere; e la sua ignoranza e grettezza erano indispensabili perché restasse senza ribellarsi in questa condizione.

Ci vollero molti anni e l'inizio della produzione in serie (le lotte operaie anche, beninteso) perché alcuni imprenditori capissero che ad un'organizzazione capitalistica della produzione doveva affiancarsi, di pari passo, anche un'organizzazione del consumo e del tempo libero. Era cioè necessario mutare profondamente il ruolo sociale del lavoratore partendo dalla riduzione dell'orario di lavoro (che non lasciava il tempo oggettivo per dedicarsi al consumo) fino ad arrivare ad elargirgli quegli strumenti culturali necessari alla trasformazione da schiavo in consumatore.

È con questi strumenti che un nuovo soggetto si affaccia sulla società contemporanea e mentre da una parte inizia a pronunciare istanze per partecipare con la propria voce alla voce della società in evoluzione, dall'altra è lentamente azzittito nel gioco del consumo dove una macchina di sogni e di magia è pronta ad esaudire i suoi desideri di pari opportunità, o quantomeno a continuare a rinnovargli la speranza che si possano esaudire.

Il progressivo ampliamento dei confini legislativo-libertari ha creato, paradossalmente, il restringersi inversamente proporzionale, del significato di libertà. Quest'ultimo, teoricamente evirato della sua integrità pragmatica (per altro mai materializzatasi) è andato via via assumendo un ruolo ambiguo e ingannevole: quello di una società dove tutto può essere detto (e fatto?), ma dove solo chi detiene il potere economico -e va da sé politico- è senz'altro ascoltato nel suo autodelegarsi e delegare a dire (e a fare), trasfigurando sostanzialmente in una libertà per pochi.

L'essenza del capitalismo consiste (senza certo scoprire l'acqua calda) proprio in questo: i mezzi di produzione e d'informazione sono nelle mani di un'esigua minoranza di persone che decidono delle sorti della società senza essere responsabili nei suoi confronti -e il passaggio dallo stato di sudditanza delle masse a quello di agenti partecipanti ad un ambiguo processo democratico non ha comunque mutato questo assioma.

I sudditi, diventati elettorato, hanno visto aumentare le loro possibilità d'acquisto (secondo un'esigenza che, come abbiamo visto, era anzitutto dei mercati) e, di pari passo, aumentare l'importanza della loro opinione. Beninteso, non la loro opinione in quanto singoli individui, bensì la loro opinione collettiva, la loro opinione come massa.

È a questo punto che diventa indispensabile controllare questa opinione collettiva, plasmando e edulcorando da una parte le singole voci che tentano di levarsi e dall'altra facendo confluire in un unico modello dominante differenze e divergenze.

Ci fu un tempo in cui il Potere si nutriva unicamente della propria forza per imporre, attraverso le leggi, il proprio dominio. Più tardi, con la fine del politeismo e l'avvento delle grandi religioni di massa (Cristianesimo in testa), la forza di questo oscuro oggetto del desiderio accrebbe smisuratamente le proprie capacità di dominio nel connubio tra leggi di Stato e leggi Morali. Da quel momento contrapporsi al Potere e ai suoi dettami non significò più la sola possibilità di dover rispondere delle proprie azioni di fronte a una giustizia esterna e umana. Una nuova forma di controllo si levò al di sopra di tutte le leggi centuplicandone l'efficacia. Una forma di controllo interna e inattaccabile perché solo dogmaticamente tangibile: quella di un ipotetico Dio e del peccato.

Da sempre la Storia dell'Uomo è costellata da questo connubio dove ogni gestione del Potere, per quanto primitiva, ha un carattere sacro che si fonda sulla duplice azione del controllo morale (attraverso qualche forma di religione) e il controllo fisico (attraverso le leggi dell'Uomo) e, insieme, per il controllo delle idee e delle opinioni. E la forma più alta, lo status principe di questo connubio, ha certo inizio con il Sacro Romano Impero dove due uguali manifestazioni di Potere, dopo aver lottato nel tentativo ognuno di sopraffare l'altro, giungono all'accordo di dividersi il Potere sul tempo, ossia sull'elemento che più di tutti è in grado di totalizzare l'esperienza umana. Uno allora sarà chiamato a governare il mondo finito e temporale, l'altro il mondo eterno di Dio.

Questo duplice spirito è fondamentale per la vita stessa del Potere poiché, oltre a dettare i limiti entro cui l'Uomo può giostrare senza incorrere in punizioni, supplisce anche all'assenza di opinioni, fornendone almeno una a coloro che non ne hanno.

Oggi, interiorizzata a tutti gli effetti la concomitanza attiva fra punizione umana e punizione divina, assistiamo a un ulteriore passo avanti (che poi è un passo indietro). Il Potere non ha più bisogno né di leggi statali né di leggi morali, se non per tutelare l'esistenza e la riproduzione di quella nuova forza con cui nei fatti le ha sostituite: la Legge del Consumo. Una fabbrica esaltante che produce opinioni semplici, conformi e facili da governare e controlla quelle opinioni che rischierebbero di minare il Potere. E' più di una fede, è più di una legge vincolante, è un bisogno insopprimibile, una dipendenza tossica nel cui nome tutto è concesso: dall'omicidio all'autodistruzione. Tramite la quale ogni soggetto acquista vitalità nelle modalità e nella misura in cui... consuma . Con la quale il baricentro delle necessità si è ampliato a dismisura racchiudendo nel concetto dell'indispensabile, il superfluo, il dispensabile. Le minoranze che detengono i mezzi di produzione e d'informazione, in una parola: il Potere, hanno cosi concluso il loro corso e, con la complicità della cultura e quindi dell'educazione, anche le masse che in un primo momento tentarono di ostacolarle, si sono ridotte a vere e proprie etnie emarginate, così quello che rimane è un vuoto che inspiegabilmente soddisfa, riempie.

Questo senso di sazietà mentale, questo soddisfacente vuoto, nasce, paradossalmente, dalla quantità abnorme di vuoti dettami e di vuote opinioni che la Legge del Consumo è in grado di produrre stratificando concetti, giudizi e riflessioni che ognuno finisce per credere come personali, sentendosi quindi colmo di un qualcosa che, di fatto, non gli appartiene, qualcosa di prefabbricato.

Mai prima di questa impressionante escalation del consumo l'Uomo aveva creduto di possedere una così sproporzionate quantità di idee, su tutti e su tutto. Era depositario e apostolo di usi e di costumi, di esperienze, ma non gli passava nemmeno per l'anticamera del cervello di possedere opinioni teoriche su ciò che le cose sono o devono essere e, nel caso, laddove queste opinioni emergevano, erano sempre e solo il frutto di un profondo lavoro di studi e di conoscenze.

L'Uomo contemporaneo, invece, crede di possedere le sue idee dentro di sé, quasi a prescindere, e ci crede talmente tanto che arriva persino a rifiutare i percorsi necessari per elaborare idee proprie, come ad esempio conoscere le idee degli altri.

Vuole opinare, però non vuole accettare le condizioni, la fatica necessaria alla formulazione del pensiero. Gli bastano le idee vuote e le opinioni avulse che la Legge del Consumo gli fornisce sul semplice e per nulla faticoso piatto d'argento della consuetudine e della banalità, ossia -ancora una volta- del controllo sociale [...].



Massimo Silvano Galli

La cultura alle masse  

da: Making reality -saggio (1999) di Massimo Silvano Galli
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