[...] Il flusso di immagini che corre davanti agli occhi dell'Uomo occidentale, attraverso i mezzi di comunicazione ma anche lungo i linguaggi che strutturano la vita quotidiana di ognuno, sembrerebbe dunque riaffermare continuamente la possibilità concreta di tendere ad un cambiamento sostanziale delle nostre vite verso uno stato di felicità (benessere, amore, salute, ricchezza, potere, etc.) che appare come eterna. Questa promessa che tanto sembra allettante e portatrice di vitalità è però una promessa di morte.

Uno stato immutabile, nel quale tutto funziona al meglio e dove non c'è spazio per la frustrazione, è in realtà uno stato che potremmo definire di "vita inorganica", un ossimoro che svela chiaramente la pulsione di morte che attanaglia le società occidentali nel loro complesso; perché il tentativo di eliminare la frustrazione quale funzione logica nel gioco della necessaria dialettica che sottende ogni processo vitale, è una negazione della vita stessa. Non è infatti possibile pensare alla felicità se non partendo da una frustrazione preesistente, così come non è possibile -per dirla più banalmente- pensare alla luce senza il buio. Da ciò, non solo la falsa promessa di uno stato di felicità godibile aeternam, ma anche la sedimentazione -per quanto inconscia- di un senso di morte che sovrasta le nostre vite e cui pare non ci si possa contrapporre se non affannandoci in continui atti dell'unica vita socialmente riconosciuta: ossia con continui atti di consumo -non a caso la nostra società sta facendo di tutto per svuotare la morte da ogni suo significato spronandoci ad abbracciare la felice e frenetica rincorsa verso un'immortalità che trova nelle merci e nel loro consumo il più evidente e glorificante monumento.

Ma non solo. Questa continua affermazione del consumo come espediente unico per giungere alla felicità e al benessere, questa presenza assillante di desideri esauditi, rappresentano -paradossalmente- il più grande ostacolo alla realizzazione della propria esistenza.

Poiché la vita, qualsiasi vita, è sforzo e lotta per affermarsi in quanto tale e sono le difficoltà che ognuno incontra in questa lotta che strutturano e amplificano, modificano le capacità; allora una vita senza difficoltà equivale a una non-vita; al rischio della degenerazione, all'insipienza e -ancora una volta- ad uno stato di morte.

Il cambiamento che ci propone questa società è dunque un non-cambiamento, poiché esso è visto esclusivamente nell'ottica di una proposizione continua di soluzioni che volgono ad un unico grande scopo: il piacere come stato immobile. Una società cioè, che mentre a tutti gli effetti parrebbe riaffermare continuamente la vita, altro non fa che proporre, in tutte le sue forme -compreso il tentativo di eluderla- la morte. Un mondo sovrabbondante di possibilità e di diritti, per così dire "gratuiti", che finisce inesorabilmente per produrre gravi deformazioni e difettose tipologie di vita umana.

Per quanto paradossale possa apparire questa affermazione, essa è fortemente testimoniata proprio dai messaggi e dai segnali provenienti dall'intero sistema della comunicazione.

Se una qualsiasi merce può assumere un valore immaginario e simbolico più elevato della vita stessa (e gli esempi potrebbero essere molteplici); se intere popolazioni vittime di veri e propri processi di annientamento possono essere poste sul piatto di una bilancia dove, a far da contrappeso, vi è la conservazione di poteri da riaffermare; se l'impulso vitale e creativo dell'intero sistema esistenziale umano può essere controllato, destrutturato e annientato da un'economia che ne astrarne e ne reifica solo la sua commerciabilità; è allora indubbio che anche quell'idea di vitalità che questo mondo tende a spacciarci come propria, altro non è che un'idea di morte.

Si tratta di una patologia mentale insita nella struttura più profonda della nostra società (il cui più alto esempio é, ancora una volta, l'affanno massmediologico alimentato dal mondo scientifico di librare nell'etere l'idea di una possibile vita eterna); una vera e propria psicosi alla quale apparentemente non vi è risposta e dalla quale sembrerebbe non arrivare nessuna domanda di cambiamento.

Quando si parla di patologia mentale, di società malata, di poteri che soverchiano e mutano a loro uso e consumo i naturali bisogni dell'Uomo, non dobbiamo pensare ad un complotto ordito da chissà quale oscuro impero del male, bensì alla naturale evoluzione della cultura dell'avere che -per stare con Fromm- ha pressoché soppresso la cultura dell'essere ordendo, se proprio vogliamo parlare di complotto, contro l'idea stessa di cultura e quindi, con un atteggiamento autodistruttivo, anche contro se stessa e coloro che la propugnano.

Questo processo di annientamento, di lenta necrosi, inizia nel momento stesso in cui compare l'idea della scienza, ossia l'idea che esista una parte dello scibile umano che si possa indagare a prescindere dal resto.

Per scienza si intende comunemente qualcosa di complesso che mischia insieme diverse cognizioni come la medicina, la farmaceutica, la fisica, la meccanica, l'elettronica, etc. e che il senso comune traduce con il vocabolo di "progresso".

Questa prima affermazione ci dà già il senso della profonda corruzione mentale cui siamo sottoposti, in quanto il vocabolo "progresso" sembra escludere nella gran parte delle opinioni la presenza dell'arte e della letteratura, della musica, della danza, quasi che queste non abbiano contribuito, non contribuiscano e non possano contribuire al progresso dell'Uomo.

La forza della scienza e le sue continue promesse (spesso anche mantenute) di poter rendere la vita di ognuno più facile, più bella, più lunga, ci ha reso ciechi di fronte al fatto che la vita stessa stava (si sta) progressivamente svuotando. Nel vuoto, infatti, e nel progressivo depauperamento dell'Uomo si esprime la storia più recente della nostra società, una trama che mentre ci racconta di paradisi a venire pieni di cose e di felicità, lavora incessantemente per legittimare l'idea di un progresso senza limiti, di diritti senza responsabilità, di opinioni senza conoscenza, di successi senza fatica, di soluzioni senza problemi. E' una società moralista, ma è senza morale perché l'ha sostituita con l'efficienza e con il benessere individuale. Promette il paradiso in terra attraverso le false e dispensabili comodità del progresso, sostituisce la conoscenza con la professionalità e promuove l'estasi del consumo come deterrente alla noia, alla pazzia e al suicidio. Eppure continua a mietere (se possiamo usare questo paradosso) torme di fedeli, anzi possiamo senz'altro affermare che siamo di fronte alla più potente e numerosa religione che sia mai esistita.

Non vogliamo qui fare una demonizzazione della scienza, ma cercare di dimostrare come questa fede cieca e assoluta, accompagnata da una vera e propria teologia della scienza che ogni giorno ci racconta dal pulpito dei mass-media qualche buona novella, sia diventata dannosa e autodistruttiva perché non ha promosso, di pari passo, un'idea più vasta di verità e di conoscenza: quella visione della realtà che passa, ad esempio; delle arti, della spiritualità, da quell'irrazionale che contiene tutte le risposte e nessuna.

A partire dal 1765, quando James Watt inventò la macchina a vapore e, poco dopo, nel 1792, quando William Farish introdusse alla Cambridge University l'idea del voto numerico da attribuire al sapere degli studenti, inizia quel processo di mutazione che vede oggi la scienza sorgere a dogma.

Prima di allora ogni uomo sapeva che qualsiasi invenzione, qualsiasi nuovo strumento, non poteva fornire una filosofia di vita, che egli era il padrone dei suoi strumenti e non il suo schiavo. Ma Watt e Farish inventano, certo inconsapevolmente, una nuova religione dove, per usare una parafrasi, la macchina a vapore è il miracolo che testimonia l'esistenza di questo nuovo Dio e la conoscenza trasformata in punteggio numerico è la Bibbia attraverso la quale prende abbrivio il concetto numerico della realtà, ossia quel concetto che ha permesso la discesa progressiva verso le barbarie di una cultura capace di trasformare in numeri -nel verbo della scienza- l'intero universo dell'esperienza spirituale umana. Amore, sentimento, odio, paura, intelligenza, verità, menzogna, ogni cosa oggi può essere misurata, fino a trasformare l'Uomo in una sequenza di numeri che possono essere inseriti in un computer, non per simulare la realtà, ma per costruirne una nuova (virtuale) e totalmente manipolabile.

Mentre Watt e Farish inventano il nuovo credo, con uno sviluppo incredibile e mai visto prima, nascono, anno dopo anno, strumenti destinati a mutare profondamente l'Uomo nelle sue fondamenta. Nasce l'industria delle macchine utensili, ossia macchine per fabbricare altre macchine, ma anche la fotografia, il telegrafo e l'industria dell'informazione con la rotativa, la macchina per scrivere, il telefono, il cinema. Una quantità incredibile di invenzioni che, da lì in poi, non si arresteranno più, arrivando così al parossismo tecnologico dei nostri giorni, continuamente incalzati da nuove rivoluzionarie scoperte e nuove rivoluzionarie invenzioni, senza più sapere, senza nemmeno porci il problema di come ogni nuova invenzione alteri la natura dei nostri interessi (ossia le cose a cui pensiamo) e alteri la natura dei nostri simboli (ossia le cose con cui pensiamo) e infine alteri le comunità in cui viviamo (ossia il terreno di coltura in cui i pensieri possono trovare approdo).

Il Dio della scienza ci dice, ad esempio, che attraverso il computer possiamo eseguire una determinata operazione un milione di volte più velocemente di quanto non si potesse fare fino a cinque anni or sono. Ma, al di là della pura speculazione pragmatica, tutto ciò a cosa serve se la stessa Scienza non ci spiega, con la stessa volontà persuasiva, come questa operazione alteri il nostro concetto di tempo, di conoscenza, di vita, di realtà e come ciò si ripercuota, con quali effetti, sulla nostra quotidianità? Nessuno ce lo spiega, perché il dogma della Scienza dispiegato alle masse necessita servilismo e non consapevolezza.

Ogni giorno aprendo il giornale ci imbattiamo in qualche assurda e improbabile affermazione, come: "Un recente studio dell'Università di X ha dimostrato che fare sesso con la propria Colf riduce le possibilità di infarto del.". Queste notizie, vere o false che siano, tengono all'erta e diffondono l'onnipresenza e l'onnipotenza del DioScienza e sfiancano, affievoliscono, nella ridondanza, il grado di incredulità dei suoi fedeli promuovendo, in primo luogo, la convinzione che ogni scoperta scientifica, ogni nuova tecnologia, finirà per essere patrimonio di tutti.

Non crediamo necessario rilevare ai lettori come ciò sia fondamentalmente falso, basti citare l'esempio dell'AIDS e dei suoi farmaci, che nel ricco mondo Occidentale hanno trasformato una malattia mortale in una malattia cronica, mentre nell'affamato e povero Terzo Mondo rimangono una speranza inaccessibile per milioni di persone che si infettano e muoiono ogni anno.

Ciò è possibile solo perché l'obiettivo di questo nuovo Dio non è la diminuzione dell'ignoranza, della sofferenza, della superstizione, dell'ingiustizia, bensì quello di adeguarci e renderci uniformi ai suoi dettami e illuderci, lenirci con il Suo paradiso: promessa -qui e ora- di una vita migliore.

Di fronte al manifestarsi, più o meno palese, di questa complessa e stratificata malattia, il sistema immunitario delle società occidentali ha scatenato una serie di terapie che sembrerebbero attaccarne direttamente le cause. Tuttavia, osservando in un'ottica più fredda e profonda queste soluzioni e privilegiando la concezione della malattia mentale piuttosto che della malattia organica, viene il dubbio che l'attacco alla malattia tenda più alla conservazione che non alla cura.

In realtà, il tentativo di occuparsi di frammenti riduttivi nei quali si ravvisano i sintomi della malattia (che prende nomi diversi e sembrerebbe generata da cause diverse) sempre di più si dimostra quale placebo illogico.

La frammentazione della società in mondi determinati dei quali prendersi cura e dei quali definirne i diritti e i contesti legislativi, ha sostituito radicalmente ogni possibilità di lettura globale, impedendoci di poter riconoscere cause generali di differenti problematiche.

I diritti dell'infanzia, i diritti del malato, i diritti dell'automobilista ma anche del pedone e di ogni categoria possibile e immaginabile, e -sopra a tutto- i diritti del consumatore, altro non fanno che allontanarci da una concezione globale del diritto dell'individuo e della vita: forse il sintomo più eclatante della malattia mentale suddescritta.

È a questo punto che, ancora una volta in una tensione immunizzante e protettiva del sistema in cui viviamo, si apre il sipario sulla grande scena di quello che abbiamo chiamato "l'accanimento sociale".

Siamo le società più istituzionalizzate che la storia dell'Uomo abbia mai conosciuto. Mai come in questo momento possiamo fruire di strategie mirate alla soluzione di tante e particolari problematiche sulle quali s'innesca un indotto produttivo che addirittura coinvolge aree un tempo circoscritte a mondi culturali ben definiti come ad esempio il volontariato. Tuttavia questo tentativo, che crediamo non del tutto strumentale -ovvero al quale supponiamo un'idea benigna che muove i fautori di queste politiche- si presenta comunque disarmato di fronte ai desideri e alle domande più profonde dell'Uomo contemporaneo e -in simbiosi con la logica della società in cui è inserito- contribuisce al sacrificio degli unici veri strumenti di cambiamento: la conoscenza e la cultura intesi come l'accumulo dell'esperienza umana; fondamentale diritto che ogni Uomo dovrebbe esigere per avere una parte attiva nella società come nella vita privata, un diritto di fatto negato.

La presunzione della società contemporanea, che sembra poter fare a meno della conoscenza e della cultura quali strumenti di navigazione individuale, si manifesta proprio attraverso l'intervento sociale; cercando cioè di fornire ad ogni individuo perpetue figure di accompagnamento che si presuppone siano adatte a condurlo attraverso le rotte del proprio esistere.

Dal momento stesso in cui nasciamo fino alla nostra definitiva dipartita, un complesso apparato di figure sociali è pronto ad osservare i nostri più minuti movimenti nel tentativo -certo benevolo- di impedire il sorgere di possibili malfunzionamenti. Si tratta di una sorta di involucro protettivo che, trasformando la propria immagine e le proprie funzioni lungo le tappe della nostra crescita, ci accompagna -con presenze più o meno assidue- fino alla fine dei nostri giorni.

Tuttavia, fedeli alla logica della società che li emana e li contiene, anche queste figure si presentano con il triste appellativo di professionisti, frutto della cultura del sapere parcellizzato.

Un professionismo distruttivo, in grado di funzionare discretamente quando la soluzione che gli si richiede presenta un problema prettamente tecnico (aggiustare un televisore, edificare una casa, etc.), ma che diviene nefasto laddove la tecnica si fonde necessariamente con l'umano e chiama a conoscenze non meccanicistiche, intuitive o di buon senso, ma intrise direttamente nei fondali dell'Uomo e in grado di mescolare ogni Sapere per giungere a nuove riflessioni capaci di scrutare la società e le sue contraddizioni, di metterla a nudo di fronte alle sue brutture e alle sue malformazioni contribuendo alla costruzione di patrimoni di consapevolezza, necessari antefatti del cambiamento e del superamento delle problematiche.

Così, questo accompagnamento sociale, questo continuo bisogno di accudire, proprio perché prodotto istituzionale della società in cui opera, proprio perché costruito sulla fittizia divinità risolutrice di quel professionismo incapace di vedere un po' più in là del proprio naso, non potrà mai contraddire la società che lo ha generato, pena la sua scomunica. Così la breve (e tragica) trama dell'intervento sociale contemporaneo, mentre da una parte sembra suggerire l'idea di una società progredita, ci pone parallelamente di fronte a un'ostacolo apparentemente irrisolvibile.

Un'assitenzialismo sociale privo dei necessari strumenti culturali che, senza potere (o volere) contrapporsi alla società che lo ha creato, cerca illusoriamente di offrire risposte a problemi che emergono dalla natura della società stessa, problemi che sono l'emanazione diretta delle contraddizioni sulle quali la società si fonda, non potrà far altro che chiedere, ancora una volta, il sacrificio finale dell'individuo.

È dunque vero che le democrazie moderne, chi in un modo chi nell'altro, si sono fatte carico di issare la bandiera dei diritti universali, di prendersi cura dei bambini, degli emarginati, dei bisognosi, dei vecchi, etc. ma in una direzione di pura assistenzialità, incapace di mettere in discussione la società nelle sue aberrazioni, incapace di sviluppare nei suoi confronti una dimensione critica, incapace di accogliere e offrire territori dialettici per ingenerare i conflitti necessari alla naturale evoluzione di ogni sistema.

Difatti, una delle più importanti trasformazioni che possiamo leggere all'interno delle cosiddette società postindustriali è la tendenza, ormai ipergeneralizzata, ad attenuare le tensioni, ad ammorbidire gli scontri, a spegnere i conflitti. Beninteso, non i conflitti nella loro estensione brutale e barbarica: le guerre, che tutti aborriamo e che comunque continuano a mietere vittime. Bensì i conflitti sociali, la cui attenuazione si è rivelata e si rivela funzionale e determinante al cammino verso lo stato inorganico della nostra civiltà, poiché la capacità di reificarsi e rinnovarsi del nostro mondo era stata sostenuta proprio da questi conflitti, ossia -come abbiamo già sottolineato- dal fatto di potersi mettere, sotto la spinta di una pressione, continuamente in discussione. Persino le classi meno abbienti, quelle classi che si suppone possano diventare l'elemento attivo di un certo tipo di protesta, oggi non si oppongono più a nulla.

Le cause di questa trasformazione sono in gran parte attribuibili alle diverse argomentazioni che abbiamo cercato di trattare nei capitoli precedenti, possiamo però senz'altro tornare a ribadirle in un ordine pressoché cronologico, ossia: l'avvento della società dei consumi, la perdita della cultura e dell'identità culturale e, infine, il testé citato accanimento sociale.

A partire dall'assorbimento della logica del consumo possiamo senz'altro affermare che, più si fa predominante e conglobante la sua inondazione del tessuto sociale, più sembrano attenuarsi i conflitti.

In controtendenza alla logica dell'intervento sociale la trasformazione dei conflitti è andata di fatto ad ampliare il disagio generando problemi estremamente più pericolosi che avremmo già dovuto iniziare a prendere in considerazione formulando nuovi linguaggi e nuove strategie d'intervento, poiché su di essi si fonda una nuova questione sociale: dove la fascia del disagio si estende trasversalmente, in cui le problematiche ogni giorno di più si generalizzano e si delocalizzano e in cui la difficoltà dell'intervento sempre di più diviene difficoltà di percepire un malessere non più visibile e che colpisce tutti indifferentemente.

Certo è un malessere che trova ancora i suoi maggiori picchi nelle fasce più deboli, ma nei fatti è un malessere che riguarda la società tutta, la sua trasformazione sempre più rapida ed esponenziale, cui però non è corrisposta un'eguale crescita degli strumenti culturali in grado di dare identità ai suoi attori attraverso quell'autonomia esistenziale che sottende ogni superamento della patologia e dei suoi rapporti di dipendenza strutturale [...].



Massimo Silvano Galli

La società malata   

da: Making reality -saggio (1999) di Massimo Silvano Galli
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