Ogni scrittura che tenti, per quanto possibile, di sintetizzare quegli attraversamenti sempre complessi che vanno sotto il nome di "esperienze professionali", finisce inevitabilmente per circumnavigare, sezionare, setacciare lo specifico dei luoghi (intesi topograficamente, ma anche quali emblemi di una particolare mission, filosofia o metodologia e, infine, quali punti di partenza di un agire pragmatico) in cui l'esperienza stessa si è risolta; quasi che la forma dell'esperire, quando si avvale dell'aggettivo "professionale", volga fatalmente a quello spazio fisico che consente l'agire e che in qualche modo lo definisce.

Si dimentica, invece, spesso, o comunque si presta poca attenzione, a come tali luoghi siano anche e soprattutto luoghi di persone e che, se così non fosse, non potrebbero riempirsi di significato, essere snodo della rete neurale che raccoglie e/o canalizza i compiti e gli stimoli, affinché si traducano in azioni e ricadano su uno degli infiniti territori della realtà, modificandola.

L'esempio più banale, ma anche più incisivo di questa distorsione, si palesa nella semplice lettura di un qualsiasi curriculum vitae -appunto- "professionale", dove le figure umane, le persone, gli individui che compongono e danno vita e senso ai luoghi in cui maturano e si sviluppano le professioni, finiscono, nella quasi totalità dei casi, per non essere rappresentati o, al massimo, per prendere visibilità come gruppo, nominati collettivamente in uno dei possibili sottoinsiemi di categoria in cui si accorpano ruoli e mansioni.

1.1 L'Altro come maestro
Tale misconoscimento, per quanto risultato di diversi fattori (non per ultimo l'idea stessa che il lemma "professionale" suscita nel nostro immaginario), si può ricondurre, in buona sostanza, ad una difficoltà più profonda: quella di riconoscere l'Altro come parte essenziale nella costruzione mai finita della propria identità (e, quindi, per riduzione, della propria professionalità); di riconoscere, sempre e comunque, l'Altro come colui che mi è maestro, semplicemente per il fatto che, mio simile/diverso, se lo guardo non solo mi ri- guarda (doppio movimento che contempla l'idea di cura e attenzione mia all'Altro e, insieme, il fatto che l'Altro, guardandomi, a sua volta mi riconosce come suo simile/diverso), ma anche che, attraverso il suo sguardo, anch'io mi guardo, mi ci scopro riflesso. Si tratta, insomma, di quell'ineludibile mutuarsi che caratterizza (consapevolmente o meno) ogni relazione, poiché solo nello iato che si crea tra me e l'Altro si avvicenda la possibilità di cambiarsi: colmandolo.

Un riconoscimento che, inoltre, per dotarsi pienamente di senso, deve necessariamente collocarsi oltre gli ostacoli delle reciproche incomprensioni, delle epidermiche antipatie, delle intolleranze, di quei sentimenti che, insomma, sono parte costitutiva dell'Umano ma che, spesso, ci portano a misconoscere l'Altro, proprio perché troppo distante da quell'immagine in cui vorremmo determinarlo.

Riconoscere l'Altro come maestro significa, invece, accettarlo con tutte le sue (a i miei occhi) brutture; non eludendole, non dissipandole in quel mediocre spirito buonista oggi tanto in voga, ma, anzi, mettendole in luce al pari delle sue (ai miei occhi) qualità e, laddove queste dovessero difettare, persino a prescindere da esse. Solo così potrò, una volta in più, riconoscerlo come maestro, seppure nella differenza tra il mio ideale e quanto di lui ritengo negativo, irritante, scostante.

Insomma, l'Altro mi è maestro comunque e, questa consapevolezza, mi è indispensabile per conferirgli tutta la dignità di Uomo, per andare oltre ogni categoria sociale, etnica, culturale, economica, spirituale, politica, caratteriale. e poterlo individuare nella sua elementarità carnale, dove assume davvero senso il motto popolare: "da tutti c'è da imparare".

1.2 Educare aeternam
Questa riflessione apre, volendo, a molteplici spunti e considerazioni che guardano all'etica e si propongono come possibili antidoti all'intolleranza, alla disuguaglianza, alla guerra, al razzismo. fenomenologie che, sotto questa luce, possono ammantarsi di nuove -appunto- rifrazioni e, forse, perdere in parte le loro già superflue ragioni d'essere.

Il punto che, tuttavia, mi sembra centrale, nonché strettamente connesso ai saperi qui celebrati, ma anche alla mia relazione con essi, riguarda, da una parte, l'assunzione di responsabilità insita in questa considerazione e, dall'altra, la conseguente dilatazione del concetto di educazione che paventa.

Infatti, se l'Altro mi è maestro e io sono maestro per l'Altro, allora è lecito pensare che quel particolare rapporto di attenzione, tutela, cura, consegna di saperi, responsabilità (appunto) che si è soliti immaginare (anche un po' idealizzandolo, certo) tra educatore e educando, si possa estendere ad ogni relazione. Che il sapiente si disponga a imparare dall'incolto, insomma, e il vecchio dal giovane, l'insegnante dall'allievo, il formatore dal formando (senza per altro rimuovere tutti i loro consolidati contrari). E lo faccia veramente, non solo in quella disposizione, tutta demagogica, per altro tipica di certi saputi dell'educazione, che lo sostiene nelle speculazioni e lo tradisce nella prassi.

1.3 Riconoscere il maestro
La particolarità della mia "esperienza professionale" è, in buona sostanza, legata al fatto di non essere tale, bensì il risultato di incontri e relazioni con maestri che mi hanno tacitamente guidato a questa consapevolezza e alla maturata progressiva capacità di riconoscerli (e riconoscermi) come tali; anche spronandomi al loro superamento , non per competizione, ma per rispetto e riconoscenza a quel comune maestro che è la vita, intesa come processo di perenne interrogazione e scoperta.

1.4 Il maestro nell'arte
Credo sia importante ora osservare come questa idea dell'Altro come maestro sia maturata, per quel che mi riguarda, all'interno di uno specifico ambito relazionale: quello che il mondo dell'arte intrattiene con i suoi attori.

Si tratta di un ambito davvero particolare per quel che concerne il nostro discorrere, in quanto coinvolge almeno tre tipologie di relazione: quella dell'artista con il fruitore, quella dell'artista con l'aspirante tale e quello dell'Opera (essere metafisico e a sé stante) con ognuno di essi. Dove ciascuno di questi poli vive fortemente quel dualismo allievo/maestro di cui stiamo trattando; persino il rapporto artista/fruitore che potrebbe sembrare, di primo acchito, solo unidirezionale, con la figura dell'artista pietrificata nel ruolo del maestro. Si pensi, invece, semplicemente, a come l'Opera non esisterebbe senza (ancora una volta) lo sguardo del fruitore o come, di fatto, l'Opera altro non sia che lo sguardo che l'artista ri-trae, decifrando i messaggi che gli giungono dal mondo del fruitore e ad esso restituendoli in forma nuova e inaspettata. Ma non solo. Lo stesso artista, come vedremo anche più avanti, reca in sè questa dualità in cui ricopre sia il ruolo di maestro che quello di allievo, in quanto, nell'evento rivoluzionario dell'Opera, si scatena una verità di cui l'artista non è solo autore, ma anche fruitore, ciò significa che l'artista scopre mentre crea il mondo che va creando.

1.5 Obiettivi
Dedicherò, dunque, una prima parte di questo elaborato ad alcuni di questi maestri tralasciando, per mancanza di tempo e di spazio, tutti quelli che in verità meriterebbero citazione, compresi coloro che non ho avuto il piacere di conoscere "live", per così dire: poeti, pittori, musicisti, filosofi, etc. incontrati al liminare di quella realtà comunque palpabile che, attraverso diversi supporti mediatici, ha portato fino a noi, se non il loro corpo, almeno la loro anima; e tralasciando, altresì: amici, parenti, amori che, tuttavia, un ' analisi più fedele a quanto su affermato, non dovrebbe escludere da questo periplo.

In un secondo momento mi soffermerò invece sulle ripercussioni pratiche che questi incontri hanno determinato, sulle riflessioni che hanno scatenato e sul loro legame con l'ambito educativo.


2. Paesaggi umani
A volte, oltre la cornice di un quadro, superato il caotico orizzonte del fare e del disfare quotidiano, appare, alla vista dei viaggiatori attenti, la strana silhouette di un paesaggio umano con artista: territori di carne che abbiamo attraversato e attraversiamo, guide, ognuno a modo loro, di strade e sentieri inesplorati. E il quadro non è semplicemente l'Opera pittorica, qui assunta a emblema delle arti, ma l'Opera in quanto tale, che può essere pittura, ma anche scrittura, scultura, musica, teatro, danza, fotografia. E l'artista non è, conseguentemente, solo colui che dipinge, ma colui che, attraverso l'uso di un determinato linguaggio, ci accompagna, in combutta con uno o più dei nostri sensi, alla scoperta di un mondo inusitato, che poi è questo mondo spiato da un buco da cui non avevamo mai guardato prima.

L'artista crea e anima, infondendo vita in ciò che non ha vita, e l'incontro con l'Uomo che nutre e porta in sé questo spirito creatore è sempre speciale e carico di tali epifanie da prescindere persino dalla possibile pochezza e dalla meschinità da cui, invece, l'Uomo in carne e ossa, l'Uomo-involucro che trasporta lo spirito dell'artista, comunque non è dispensato. Per questo l'artista può essere assunto a simbolo di quell'idea di maestro/allievo che enunciavamo sopra, in quanto essere duale per costituzione, mostro a due anime, dove l'auriga che suggerisce Platone sembra guidare la sua biga contemporaneamente in due direzioni opposte: sublime e teofanica quando volge al mondo dell'arte, umana (più umana) quando si immerge nella realtà manifesta.

Ecco allora, nella loro topografia nuda e cruda, i "Paesaggi Umani Con Ar t ista" che ho selezionato, qui proposti a guisa (per quanto lo spazio lo conceda) di universi in cui, in parte, è maturata la mia esperienza e la mia consapevolezza.

2.1 Primo paesaggio: Mario Spinella
Scrittore, giornalista, critico letterario, (ma amava antecedervi la definizione di "partigiano combattente"), Mario Spinella è nato a Varese nel 1918 e trapassato (in quanto l'anima dell'artista rimane incarnata nelle sue Opere, viva aeternam) a Milano nell'aprile del 1994.

Ho avuto la fortuna di conoscere Mario Spinella un settembre verso la fine degli anni Ottanta, incontrato per caso in una libreria milanese dove brigavo durante il periodo della scolastica.

Nutrivo già allora uno spiccato interesse per le arti, come produttore (ancora al principio di riflessioni e costruzioni), ma soprattutto come fruitore. Di Mario avevo letto quasi tutto, non ultimo quelle Lettera da Kupjansk con cui, solo pochi anni prima del nostro incontro, aveva vinto il Premio Viareggio, portandosi così, malgrè lui, alla ribalta di una cronaca che mi permise di riconoscerlo in viso.

Il padre calabrese, la madre umbra, Mario ha vissuto la prima giovinezza a Messina per poi frequentare l'università a Pisa, dove si è laureato alla Normale. Tra il 1940 e il 1941 è stato lettore d'italiano all'Università di Heidelberg e nel 1942 sul fronte russo, testimone della disfatta che lo porterà a partecipare alla Resistenza, protagonista, tra l'altro, della liberazione di Firenze, città in cui rimarrà fino al 1945, responsabile del radiogiornale di Radio Firenze Libera. Poi, dal '45 al '48, è segretario di Palmiro Togliatti, quindi: caporedattore di Vie Nuove e, da lì al '56, dirigente formatore della Scuola quadri (dell'allora PCI) alle Frattocchie. Nel 1957 approda a Milano. Scrive per Rinascita , per Utopia (che dirige dal 1969 al 1971), per il Piccolo Hans , ed è tra i fondatori di Alfabeta . Oltre a Lettera da Kupjansk ha scritto: Memoria della Resistenza (ristampato da Einaudi nel 1995), Sorella H., libera Nos (1968), Conspiratio Oppositorum (1971), Le donne non la danno (nel senso della morte -1980), e un inedito: Rock , romanzo dalla rigida struttura (venti capitoli, venti pagine l'uno.) che stava redigendo proprio negli anni della nostra più assidua frequentazione e che fu al centro di tante nostre riflessioni e per me terreno di approfondimento della ricerca e del sapere scritturale.

Nella sua casa milanese di viale Premuda, seduti uno fronte all'altro nella cucina-studio dove lavorava e riceveva, ho avuto la fortuna di spartire con lui la gioia delle lettere quando, messe l'une in fianco all'altre, si compongono in frammenti di verità mai svelate. E sarà proprio il linguaggio uno dei nostri temi di maggiore riflessione. La necessità lacaniana di restituire importanza primaria alla parola, riscoprendola, a partire dal suo ordine simbolico, quale strumento capace di indagare e determinare il reale.

Poi, nell'aprile 1993, un anno prima di morire, in una graziosa chiesa sconsacrata, lui, schivo e sfuggente ai riflettori, mi ha regalato la sua inusuale presenza di attore (seppur nei panni congeniali di critico letterario) durante una delle mie prime performance teatrali.

Esempio illuminante del ruolo e dell'etica dell'intellettuale, Mario mi è maestro, anche e soprattutto, per la passione e l'impegno che ha saputo infondere, a me come a tanti, per la conoscenza quale riscatto dell'Uomo e delle collettività.

2.2 Secondo paesaggio: Daniele Oppi
E' la narrativa a farmi conoscere, nel 1991, Daniele Oppi; l'intercessione mediatica di un mio primitivo romanzo ("Arazzi Senza Cornice") che lo stesso Spinella mi aveva aiutato a riscattare dalle pastoie delle Opere prime.

Daniele Oppi, artista visionario, grande esperto di comunicazione, è nato a Milano nel 1932. Tra i fondatori della mitica "La Zanzara" e di "Mefistofele" già negli anni del liceo classico al Parini; nel 1948 riceve, per la sezione pittura, il premio "Gioventù studentesca" -insieme a Giovanni Roboni, premiato per la poesia. Frequenta lettere antiche alla Statale di Milano dove, nel 1952, partecipa alla fondazione del Circolo Universitario Milanese (CUCMI). Nel 1954 comincia l'attività di pubblicitario, ideando alcune delle campagne che hanno segnato la storia della comunicazione italiana: il nome Lambretta, la linea Chicco , l'ago Pic Indolor, lo Zecchino d'oro, Brooklyn -la gomma del ponte... Nel 1968 abbandona l'attività pubblicitaria e si trasferisce a New York dove, insieme a Topor, Evergood, Donati, Jasper Jones, Rauschenberg e tanti altri, partecipa da protagonista alla grande pittura mondiale con diverse esposizioni nelle più importanti gallerie della grande mela. Alla fine del 1969 ritorna in Italia, in quella Cascina del Guado, nel Parco del Ticino, che diventerà la sede di tutte le sue successive illuminazioni e che, a partire dal 1970, si trasformerà in una delle prime comunità artistiche italiane. E' questo il periodo in cui, dopo la pubblicità, abbandona anche la pittura ufficiale, non smettendo di dipingere ma suicidando il valore economico delle proprie Opere e decretando, di fatto, la propria uscita dal mercato ufficiale dell'arte. Infine (ad oggi) nel 1990 concepisce il "Raccolto, l'Opera delle Opere", una suggestiva provocazione intellettuale che propone una nuova collocazione dell'arte nella società. Vi aderiscono oltre duecento artisti e autori italiani e stranieri tra cui, appunto, io, al mio esordio artistico-letterario.

L'incontro con Oppi è un colpo di fulmine! La pubblicazione del mio romanzo che, fino a quel momento, aveva alimentato tanta giustificata euforia, passa in secondo piano e il desiderio di partecipare, fianco a lui, alla costruzione di quella provocazione, si fa progetto di vita. Così, alla fine del 1990 la mia strada e quella di Oppi diventano tutt'una. Daniele ricava per me un piccolo appartamento nella Cascina del Guado e quel mondo mi accoglie davvero anima e corpo. Lì, sotto lo stesso tetto, in un continuo confronto giornaliero, maturo e fortifico, nell'affetto delle affinità elettive, il mio potenziale creativo e immaginifico.

Daniele, maestro di vita e di ideali (anche nel senso più didattico del termine) ha condiviso con la mia voglia di conoscere un intensissimo periodo di cinque anni in cui sogni e progetti si sono freneticamente alternati e accavallati al prorompere delle idee e alla costruzione delle Opere cui devo buona parte della mia formazione di artista e di Uomo.

Daniele mi ha insegnato a guardare oltre l'ordine apparente delle cose, a fare risaltare le molteplici sfaccettature e le infinite connessioni che ogni cosa intrattiene col mondo del concreto e dell'immaginale; quel particolare sguardo che Rilke chiama einsehende e che significa "vedere dentro", vedere l'anima delle cose. Sguardo che lo stesso Rilke imparò dal suo maestro Rodin, vera e propria iniziazione cui l'arte sottopone i suoi adepti per spiegargli e consegnargli l'invisibile.

2.3 Terzo paesaggio: La Cascina del Guado
Protagonista di questo paragrafo, contravvenendo in parte a quanto affermato sinora, è, in realtà, un luogo; ma un luogo "in carne e ossa", per così dire. Infatti, come esistono "paesaggi umani", allo stesso modo e con la stessa valenza letta nel riflesso speculare dello specchio, esistono vere e proprie. "anatomie geografiche", potremmo chiamarle.

La Cascina del Guado si staglia sul fluire del Naviglio Grande, poco dopo il suo sgorgare dal grande imbocco del Ticino, nel cui parco è trattenuta e protetta. Se ne sta lì fin dal XIII secolo, allora mulino: pale aiutate dallo scanalare di quelle acque calcolate cui lo stesso Da Vinci avrà modo di mettere mano. Nel Seicento fu torretta di avvistamento e, nei secoli successivi, posto ristoro per i naviganti che attraccavano alla piccola darsena che schiudeva proprio accanto al mulino. Poi, dall'Ottocento, casa di braccianti e, infine (per ora), comunità di artisti. Una storia tribolata e arzigogolata, che è rimasta intatta e si palesa in ogni pietra che circonda il sito in cui dimora.

"E le, le me la sta?" chiedeva il vecchio Crivelli, quando ci incrociavamo in qualche mondana occasione. E quel "le" stava a indicare proprio lei: la Cascina, fissata in quel pronome tutto umano che, a suo dire, trasudava dai muri. E quando puntualmente veniva a trovarci (a trovarla?) la passava in rassegna tutta, cima e fondo degli oltre mille metri calpestabili, ed era passeggio che voleva fare solo, come in compagnia di un vecchio amico cui confidare acciacchi e gioie. Ma non solo lui. Chi più, chi meno, tutti quelli che per un tratto avevano la fortuna di animarla, ne restavano incantanti.

Ci sono luoghi che possono esserti maestro e la Cascina del Guado, coi suoi segni e coi suoi sogni accumulati in sei secoli di Storia, con la sue vicende più recenti che a loro volta hanno accatastato tra quei muri altri segni e altri sogni, è senz'altro di questi. Lei, con la molteplicità di indizi e mondi che governa e manifesta, ha rivelato a me il discorso, inarticolato, polisemico, di quella pedagogia dell'utopico che non si cela nell'impossibile a compiersi, ma in quel "senza luogo" (u-topos) che, proprio in posti come la Cascina del Guado, trova il luogo per concretarsi. Per questo "(.) ho sempre avuto un certo ateo timore e profondo, religioso rispetto nel varcare l'atrio di questa casa che svogliata adempie all'ospitalità di creature umane per assolvere con maggior impeto alla sua intrinseca essenza di fiera del kitsch, di pinacoteca del sogno, di biblioteca del tuttologismo, di centro di prima accoglienza per squattrinati, senzatetto e malati, veri o immaginari. Queste mura traboccano di magia, sono la metafora delle creature che le hanno attraversate e che si portano dentro, tra mattone e mattone, sole testimoni d'ogni passaggio di popoli e etnie; di piccoli e grandi uomini che insieme hanno eretto le pareti della storia: da padre Turoldo, all'ultimo dei blasfemi; da Maria Pia Garavaglia, a tutto il Partito Comunista Brasiliano in esilio; da Mogol e Battisti, alla Banda musicale di Malvaglio; da Antonio Porta, Emilio Tadini, Enrico Baj, Alda Merini, a imbianchini, imprenditori, lavavetri, miliardari, contadini; da asceti dell'esistenza macrobiotica, a tossici, alcolizzati, incalliti fumatori; da vergini damigelle e casti puritani, a autentiche troie, pornodivi, froci e lesbiche... Mani e piedi che sono passati, che hanno toccato e creato lasciando, ognuno, il segno di una presenza, i fumi d'un sapore che si respira intero e presto è diventato un mondo di folletti, di ninfe, streghe e maghi confusi nel colore di un nuovo medioevo di cui Daniele Oppi dispone sopra i banchi le tarlate carte".

2.4 Quarto paesaggio: Sergio Ciulli
Ho conosciuto Sergio Ciulli nel 1992, al mitico Caffé Giubbe Rosse di Firenze, durante uno dei tanti scali letterari a cui, quell'anno, attraccavo, presentando e leggiucchiando il mio Arazzi Senza Cornice.

Sergio Ciulli è nato a Firenze nel 1937. Attore, regista, drammaturgo, autore radiofonico; dopo il liceo classico ha studiato teatro con Tatiana Pavlova, quindi si è diplomato all'Accademia d'Arte Drammatica di Roma e, da lì, un lunghissimo percorso, ancora ininterrotto, che l'ha portato a solcare teatri italiani e stranieri collaborando con i nomi prestigiosi della drammaturgia: Guicciardini, Menegatti, Strehler, De Bosio, Gasmann, Puecher, per citare i più importanti. Non trascurando le altre forme dell'espressione attoriale, ha partecipato a moltissimi sceneggiati e originali televisivi, tra cui L'Esclusa per la regia di Schivazzappa e Delitto e Castigo di Missiroli. Per il cinema ha girato, tra i tanti, con: Fellini in Ginger e Fred , nel Cappotto di Astrakan di Vicario e in Bim Bum Bam di Chiesa. Mentre, per la pubblicità, ha indossato i panni di Leonardo da Vinci nella serie Caffé Lavazza in Paradiso .

Stimolante e metodico maestro della rappresentazione, Sergio mi ha insegnato, in molteplici e profondi confronti e collaborazioni: le tecniche, le metodologie e, soprattutto, la gioconda serietà di quel palcoscenico che è la vita: dentro e fuori dalle finzioni di qualsiasi teatro. Nell'aprile del 1993 è lui ad iniziarmi alla pratica drammaturgia spronandomi e aiutandomi a mettere in scena la performance a più voci Aria Fritta . Nel settembre di quello stesso anno lo seguo come aiuto regista nella piéces Il poeta e la storia , tratta da un articolo di Antonio Porta. Poi, nel '94, sempre in veste di aiuto regista, è la volta de La beffa del frate all'usuraio , ricavata da una predica di San Bernardino. Infine, nel 1995, è sempre lui a seguirmi e monitorarmi nel mio debutto alla regia di un'Opera complessa: Monostato , rivisitazione in chiave contemporanea de Il flauto magico, alla cui stesura avevo lavorato negli ultimi cinque anni.

Da Sergio ho imparato l'arte della rappresentazione e la rappresentazione dell'arte. Lo spazio scenico come luogo in cui, quella che Aristotele chiamava l 'imitazione della vita , presenta, alla potenza creativa dell'artista, la possibilità di mescolare l'incorporeo e il materiale, il reale e il virtuale in un crogiuolo alchemico che finirà per essere vivo per davvero. Perché è proprio nell' imitazione della vita , nella finzione come maschera per mettere in scena probabili alternative, che la vita si svincola da ogni predeterminazione sociale, culturale, economica, morale delle scelte e si apre alla pluridimensionalità del possibile e dell'impossibile.

 2.5 Quinto paesaggio: Giuliano Zosi
Giuliano Zosi , lo incontro nel 1993 per la realizzazione di una performance multimediale tra pittura, musica e poesia in occasione degli scambi culturali tra Italia e Germania che culmineranno in una serie di concerti (poi pubblicati per l'editrice Raccolto) a Mannheim e Heidelberg e, per l'Italia, all'Università Statale di Milano.

Giuliano Zosi , musicista, poeta sonoro, è nato a Roma nel 1940. Ha studiato composizione con Roberto Lupi, si è diplomato con Goffredo Petrassi all'Accademia di S. Cecilia e perfezionato con Luigi Dallapiccola, Franco Donatoni, Giorgy Lieti. Nel 1974 ha vinto il premio Oscar Esplà di composizione sinfonica con il Ritratto di Gregor Samsa . Tra le numerosissime Opere, sempre segnate da una spiccata ricerca linguistica: Demain Ancore , composizione per pianoforte e nastro magnetico, scritta nel 1995 per il cinquantesimo anniversario della Resistenza; l'Opera lirica Giordano Bruno (1998) e l'Opera per pianoforte e computer La Scuola di Atene (1990). Dal 1976 è professore di Composizione al Conservatorio di Milano.

Ricercatore dell'intercodice e studioso delle relazioni tra musica/pittura/poesia, fondatore di numerosi gruppi dell'avanguardia musicale e poetica ( Rinnovamento Musicale nel 1968, Duo Nuovo Dada nel 1970, Suono Giallo nel 1980 e Dee zee bee nel 1991), Giuliano mi è maestro della multidisciplinarietà, della feconda bellezza dell'arte meticcia: mondi in cui si celano le infinite configurazioni che sempre si possono mutuare dai segni dei linguaggi che si incontrano e si scontrano; configurazioni che antepongono i l significante al significato, che si aprono al multicodice, alle nuove tecnologie e a un'idea dell'arte e del creare che va oltre ogni tecnicismo e intellettualismo protettivo di casta, per consegnarsi all' Uomo della strada con le sue chance rivelatrici.

2.6 Sesto paesaggio: Michele Stasi
Questa carrellata sulla carta geografica della mia formazione si chiude con un paesaggio che, in realtà, avrebbe potuto coprire, contemporaneamente, una qualsiasi delle precedenti posizioni. A differenza degli altri territori, infatti, la sua presenza, in questa costellazione di stelle polari varie e variegate, tocca costantemente gli ultimi vent'anni della mia esistenza e mi piace, per l'affetto e la stima che gli porto, prenderlo a prestito per questo finale, come a fargli stringere metaforicamente un cerchio che, tra l'altro, mi pare costitutivo dello stesso rapporto maestro/allievo.

Nato a Torino nel 1964, Michele Stasi è una delle incarnazioni più fedeli dell'artista contemporaneo e, in questo senso, difficile da classificare in una delle discipline della Creazione. Ricercatore e investigatore dell'immagine, forse, ma semplicemente perché la sua produzione, di fatto multidisciplinare, passa spesso attraverso la macchina fotografica alla ricerca di forme che assumono nuova foggia sulla carta fotosensibile.

Maestro, anche nel senso più istituzionale, nel 1983, dopo il diploma magistrale, si è perfezionato presso il Centro di Formazione per la Televisione e il Cinema di Milano e, successivamente, attraverso la collaborazione con il fotografo Edoardo Conte, collaborando a importanti videoproduzioni per Rai e Rai-Educational.

Non abbandonando la passione per l'educazione e le discipline che scavano nei fondali dell'Uomo, ha continuato ad approfondire e sviluppare contatti col mondo della filosofia, della psicanalisi, dell'arte collaborando, con lo psicanalista Riccardo Scognamiglio , con gli artisti Ferruccio Ascari, Daniele Oppi, Agustin Espanol Vinas.

Le sue Opere, sempre caratterizzate da una poetica che riesce ad abbracciare le più recenti avanguardie senza sottrarsi alle atmosfere e ai canoni della "bellezza", sono state esposte in Italia e all'estero e nel 1999 ha vinto l'European Final Art Award della Polaroid.

Ho incontrato Michele sul finire degli anni Ottanta e subito ne è nata una profonda e stimolante amicizia ininterrottamente segnata dalla condivisione di idee, Opere, progetti.

Amico sincero e generoso, analitico sperimentatore di quel connubio arte-e-vita che volge ogni istante all'insegna della Creazione, mi ha insegnato a dissodare il terreno sempre fertile della profondità che si cela dietro ogni apparente superficie e a scambiare sogni e a stringere patti di solidarietà contro le insidie della banalità e del conformismo.

Nel 1997, dopo intense sperimentazioni e Opere costruite insieme, abbiamo ideato e fondato la fabbrica di idee e progetti Oficina - making reality che, a tutt'oggi, costituisce il banco di prova di gran parte delle nostre invenzioni, dei confronti e delle Opere: metafora e sintesi di un rapporto che, forse nel senso più pragmatico, caratterizza quel cortocircuito allievo-maestro-allievo così ricco di possibilità evolutive.

2.7 Lasciti
Uno scrittore, un pittore, un attore, un musicista, un fotografo e una casa (la Cascina del Guado) che, metaforicamente, tutti li contiene e li amplifica, nella necessaria logica di una catalogazione che disponga il sapere alla fruibilità incondizionata: sia per quanto riguarda l'incontro nell'ambito della ricerca curiosa e consapevole del dato, ma soprattutto per quel che concerne la possibilità di interagirvi nella conduzione inconscia del fare quotidiano; la possibilità, cioè, di respirare e vivere a contatto coi segni e i segnali del sapere e a prescindere dalla propria intenzionalità conoscitiva.

Questi, alcuni degli itinerari della mia formazione, il lascito cospicuo ereditato dai paesaggi qui riportati e da altri non menzionati . Luoghi che si caratterizzano, anzitutto, come maestri isolati delle loro singole discipline, ma accomunati dal loro essere da me riconosciuti come tali e, conseguentemente, dalla valenza meta-educativa del loro insegnamento -nel senso che è solo nel momento in cui riconosco l'Altro come maestro che il suo discorso si svincola dal nozionismo della disciplina e si fa, per me e per me solo, discorso sull'educazione in senso lato. Ma la caratteristica accomunante di questi esempi è anche un'altra e, precisamente, il suo esatto contrario: il fatto che l'Altro riconosca me come maestro, costretto dalla vincolante circostanza della Creazione. Una Creazione capace, quindi, di decodificare e conseguentemente rafforzare il rapporto di relazione condividendo l'esperienza, sempre rivoluzionaria e generatrice, del "fare" espressivo che trova, al fondo della sua gestazione, la nascita del prodotto/Opera, simbolo meticcio dell'incontro tra maestro e allievo, suo imperituro testimone.

3. Il Maestro, l'Opera, l'Altro
Ognuno degli esempi su riportati può essere ricondotto all'incontro tra un maestro e un discente che, a un certo punto e per svariate ragioni, si trovano a dover creare un'Opera insieme e, quindi, a dover necessariamente mettere a disposizione il proprio sapere nel senso più profondo (sapere della mente che converge e interagisce con il sapere del corpo, con la storia personale del Sè e le determinazioni sociali e culturali che fanno di ognuno il portatore di una conoscenza unica e irripetibile), scambiandosi alternativamente i propri ruoli. Certo, sempre all'interno di una dinamica in cui la maggiore conoscenza, la maggiore esperienza, la maggiore abilità, costituiscono il traino della relazione, ma in un'ottica profondamente pedagogica, dove lo scarto tra i saperi si fa davvero strumento di accompagnamento, di guida non dell'Altro, ma con l'Altro: sestante che, per funzionare, non può contemplare la sola figura del maestro-modello, ma la sovrapposizione (armonica e disarmonica) di due immagini verso il traguardo dell'Opera comune che, in quanto tale, deve obbligatoriamente contemplare la presenza riconoscibile di entrambe.

Questo atto, sovversivo, nella sua capacità di scombinare il rassicurante ordine delle cose, è foriero di molteplici aspetti: sul piano di una rinnovata visione della ricerca artistica, come sul piano di una, in questo senso inscindibile, pedagogia della Creazione -intesa come percorso e dispositivo altamente formativo in cui convergono molteplici fattori in grado di adempiere esaustivamente a un mandato educativo che contempla, dialetticamente, ogni possibile contributo e mette al centro l'Opera come attestato dell'avvenuta tras- formazione.

3.1 L'intervento educativo come Opera d'arte
A partire dalle esperienze menzionate, la matrice della mia produzione artistica ha visto addizionare, ad una assodata direttrice classica che si rinnova nella Creazione di Opere singole (seppur nella varietà di una ricerca multilinguistica che abbraccia la pittura, la poesia, la musica, la narrativa), una direttrice decisamente più contemporanea che si fonda sulle già espresse considerazioni ed esige, come dicevo, la partecipazione dell'Altro per realizzarsi. Una posizione quest'ultima che finisce, inequivocabilmente, per abbracciare l'ambito educativo e integrare, alle visioni e al sapere specifico del fare artistico, le teorie e le metodologie della pedagogia.

Sono nati così, soprattutto negli ultimi dieci anni, una quantità davvero considerevole di articolati dispositivi la cui singolarità è data, non solo dalla loro conduzione, ma anche dalla loro ideazione: entrambe determinate a partire dall'utilizzo delle categorie della Creazione e degli strumenti per agirla. Interventi educativi, insomma, strutturati fin dal loro concepimento come Opere d'arte (e Opere d'arte concepite come interventi educativi, beninteso). Metafore vive di una tela su cui l'educatore e l'educando vanno precisando il loro capolavoro, mettendo a disposizione (in quella asimmetria alternata dove ognuno vive il ruolo di maestro e di allievo) le loro abilità e le loro conoscenze per il fine comune dell'Opera, con tutte le implicazioni pedagogiche che questa partecipata reciprocità presuppone.

Interventi che, nonostante le premesse, non si esauriscono nella formula dei laboratori di promozione della creatività, nei percorsi di educazione all'immagine o nelle riflessioni dell'educazione estetica; ma irrompono a tutto tondo nelle più differenti tematiche sociali, trattando l'intervento stesso come appuntito strumento artistico in grado di immergersi nell'alveo delle fenomenologie: sollecitando l'emersione di materia immaginale; interrogando la polisemia dei simboli evocati ed evocabili; reclamando, in ultima analisi, il primato delle strutture profonde e inconsce sul soggetto cosciente -senza, per altro, dover migrare nelle paludi fin troppo esacerbate della psicologizzazione .

Un processo che trova il suo centro ermeneutico nella complessità e nella ricchezza dei mondi inaspettati che è in grado di eruttare, universi cui sono legate indissolubilmente quelle dimensioni esistenziali, percettive, rappresentative, culturali, linguistiche che, emergendo in situazione, permettono una elaborazione pedagogica non solo delle possibili problematiche sottese, ma anche e soprattutto delle possibili e infinite risorse disponibili.

Risorse che si attestano anche in un'altra funzione che di questi dispositivi importa ricordare. Una sorta di appendice implicita la cui carica pedagogica travalica il singolo contesto per cui lo stesso dispositivo è stato ideato. Si tratta, ancora una volta, dell'ufficio specifico della Creazione, capace di intessere uno spazio a prescindere dall'argomento sul quale viene ricamato e dalla stessa sua formale esplicazione. Uno spazio in cui è data la possibilità di dire e di dire in profondità, di aprire quell'anfratto intimo e non alienato che spesso è negato dalla pragmatica della vita quotidiana.

Un dire che utilizza tutte le possibilità espressive e che, provocato ad uscire dal linguaggio ordinario e ordinato, si propaga con uno sviluppo ramificato di cui la complessità e la metamorfosi costituiscono la natura scompensante, lo iato che, posto al vaglio del raziocinio, darà adito, poi, alla comprensione e alla ridefinizione personale dei codici emersi.



Massimo Silvano Galli

Il Maestro, l'Opera, l'Altro   

da: Making Reality -saggio (1999) di Massimo Silvano Galli
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