"All'epoca del fascismo non sapevo di vivere all'epoca del fascismo". Così, Hans Magnus Enzensberger, poeta e scrittore tedesco, ci restituisce, tra altro e per rifrazione, l'immagine di quella particolare condizione che chiamiamo il presente e il vano sforzo di chi, immerso nel suo corso, cerca di afferrarlo o anche solo di definirlo; cosa che, invece, meglio riesce ai posteri, per i quali però quel presente è. va da sé, passato.

Certo, solo il presente può essere fisicamente attraversato, concretamente vissuto, in quanto il resto è. già stato e, quindi, solo contemplabile; oppure. lo sarà, e si spalanca alle infinite alternative dell'incertezza. Il presente, al contrario, è il luogo dell'azione, della scelta: "La forma dell'apparizione della volontà," dice Shopenhauer.

Ciononostante, lo avevano già capito gli stoici, il presente non esiste. Quale limite tra l'immobile passato e l'ineffabile futuro, il presente non è mai; ridotto ad un attimo infinitesimale, impossibile a cogliersi veramente. "Non scenderai due volte nello stesso fiume," ci illumina Eraclito nel suo memorabile frammento

Il presente, insomma, si scioglie nel passato ad una velocità pari alla sua capacità di coniugarsi al futuro.

Tuttavia, non è proprio questa sua impraticabile cattura che ci spinge, probabilmente da sempre, a cercare di bloccarlo in una definizione? A tentare di dargli, almeno nel logos, un territorio in cui possa essere arrestato? Non sono, forse, tutti i tentativi di presagire il futuro e di riscrivere il passato, nient'altro che un modo per meglio acciuffare e governare il presente?

Tempo fugit... e nessuno tra gli esseri viventi, può sottrarsi a questa inestricabile condizione, questo patto intimamente inciso nel contratto della vita.

Nessuno tranne noi umani, of course. Tranne noi entità raziocinanti sempre bisognosi di un antidoto che lenisca la cruda materialità, qualcosa che dia senso all'unica realtà che possiamo concretamente sperimentare ma che, tuttavia, non esiste: il presente, appunto.

E, allora, per sottrarci a questo paradosso, dobbiamo inventarci, come direbbe Nietzsche, un perché per vivere, affinché sia possibile sopportare come vivere. Dobbiamo, in qualche modo, dare corpo al presente. Riempire questo perenne percepirci nella mezzeria di un percorso: protesi tra ciò che era prima che fossimo e ciò che sarà quando non saremo; alla ricerca di un senso, uno scopo, che renda palpabile questo tempo mediano.

C'è, insomma, un romanzo da scrivere: la storia bellissima e tragica di un uomo "gettato", dice Heidegger, in un mondo che non ha creato e di cui egli è un "progetto" al cui finale c'è sempre e comunque la morte.

Ora, questo bisogno così profondamente radicato di darsi un presente, ha trovato da sempre, proprio nelle naturali contiguità che lo negano, la possibilità di definirsi. È, vale a dire, attraverso la ricerca nei meandri del passato e le divagazioni tra le ipotesi del futuro che il presente si è da sempre concretato. O, per stare ancora con Heidegger: è attraverso la nostra ineluttabile finitudine: la morte, cui tutti siamo chiamati, che si evidenzia il radicamento temporale dell'esser-ci e futuro e passato e presente emergono non come tre fasi distinte, ma come aspetti diversi di uno stesso processo di temporalizzazione in cui prende forma l'unità dell'esistere.
Questo, almeno, fino a qualche decennio or sono.

Sembra, infatti, che questi pilastri che hanno sostenuto la possibilità di dotare il presente di un senso spendibile, da qualche tempo siano soggetti, almeno in occidente, ad una progressiva erosione: abrasi dall'esorbitante lavorio di ridefinizione del reale che le moderne società dei consumi e le sovrastrutture che le determinano hanno intrapreso. E non solo per la crescente incertezza di un futuro da più parti e circostanze minacciato (siamo i primi esseri viventi la cui esistenza potrebbe terminare con la vita dell'intera umanità, minacce apocalittiche, fino a ieri sconosciute o relegate nel mondo del mito, oggi si presentano al nostro inconscio quali palpabili probabilità: guerre mondiali, pandemie letali, inquinamento totale, sovrappopolazione; ognuno di questi fenomeni, agendo separatamente o insieme, potrebbe decretare l'estinzione della vita sulla terra, e a nessuno prima di noi è mai capitato di vivere con questo perenne senso di precarietà). E nemmeno è attribuibile soltanto all'insistente e progressiva perdita di memoria che sembra contraddistinguere l'individuo occidentale contemporaneo, sempre meno propenso a far affidamento sul passato.

La società moderna si caratterizza, anche e soprattutto, per la velocità con cui molteplici trasformazioni si presentano alla soglia delle esperienze individuali e collettive con un'espansione che, a partire dall'invenzione della macchina a vapore, è stata davvero esponenziale. Negli ultimi cinquant'anni, poi, tale espansione si è fatta addirittura parossistica e ad essa si è accompagnata, in maniera direttamente proporzionale, una altrettanto radicale moltiplicazione dei ruoli che ognuno è chiamato a interpretare, dando voce ai personaggi, spesso contraddittori, che emergono dalle diverse esigenze relazionali e occupano le varie scene della quotidianità segnati da una crescente mancanza di certezze, prima fra tutte, e in apparente (ma solo apparente) contraddizione con il senso di precarietà su citato, la certezza della morte.

Non muore più nessuno in occidente o, peggio, la morte è stata confinata in un'area talmente privata che, fondamentalmente, riguarda solo il cadavere.

L'esperienza della morte, l'angoscia della morte, motore immobile indispensabile per dare il via, come suggerisce Heidegger, a quel cortocircuito in grado di gettare ogni vita all'interno di una temporalità complessa che ci consenta di pro-gettarci, si sta progressivamente svuotando di ogni suo significato. Attraverso un'ininterrotta spinta alla rimozione della morte, da più parti e in diversi modi: il discorso della scienza, della tecnologia, della pubblicità, ci sprona ad abbracciare l'idea di un'immortalità che si contrappone al senso di precarietà che ci attanaglia, suo paradossale antidoto falsamente rassicurante.

Ci troviamo, così, di fronte ad una bizzarra situazione: la perdita di credibilità e consistenza che caratterizza il futuro e il passato, altro non fa che esibire l'idea di un presente sempre più sguarnito di senso, qualcosa in perenne scivolamento verso un nessundove e da un nessuncosa, ma tanto palpabile quanto più eludiamo il finale della morte proiettandoci in un'eternità che non può che svolgersi in una sorta di presente continuo; tanto concreto quanto più i processi di mutamento del reale si velocizzano, dando l'impressione che il presente esista -eppur si muove, verrebbe a dire.

Immerso in un tempo così contraddittorio l'Uomo occidentale vive con un perenne senso di smarrimento. La precarietà dicevamo (il cui riflesso speculare e eufemisticamente positivo qualcuno chiama flessibilità), pare essere la caratteristica che meglio definisce questa epoca e i suoi malfermi abitanti. Una precarietà spesso inavvertita, proprio perché soffocata da tutto il presente che si manifesta e che, appunto, non dà il tempo per guardare avanti, per guardare indietro.

Precarietà relazionali, precarietà affettive, precarietà produttive, precarietà abitative che si traducono poi in una più generica precarietà identitaria che coinvolge tutte le età, ma soprattutto laddove la costruzione dell'identità trova il suo momento topico: l'adolescenza.

L'adolescenza d'altronde "è" il presente. Non c'è età dell'Uomo che interpreti in maniera più forte, appassionata, convincente, bramante, viva, l'essenza ultima della contemporaneità: "[...] concatenazione del passato e del futuro / Intessuti alla debolezza del corpo che cambia", scrive splendidamente T.S. Eliot nei suoi Quattro quartett.

Ma, appunto, anche qui, sempre in riferimento ad un passato e guardando ad un futuro.

Non a caso, con un passato e un futuro che arrancano, che traballano, anche l'adolescenza contemporanea finisce per affannarsi e si dilata, cercando di afferrare quel tempo che gli è sottratto: il presente, negato dalla nebulosità del passato e del futuro. Quasi che, segnando il passo all'ingresso dell'adultità, l'adolescente cercasse di agguantare più presente possibile, prima dell'inevitabile (inevitabile?) passaggio.

Eppure, finché il tempo è rimasto ben saldo alle sue fondamenta, diventare adulti era la meta agognata dell'adolescente: traguardo dell'indipendenza, dell'autorità soverchiante finalmente svicolata, della produzione per me e della riproduzione di me.

Oggi, invece, l'adolescente rifugge la chiamata all'adultità e si gingilla con continue proroghe che spostano in un imprecisato altrove il momento crucciale.

Come il re di Ionesco che non voleva morire, anche l'adolescente sembra volersi sottrarre alla sua morte puberale che lo scaglierebbe nel mondo adulto con tutti gli oneri e gli onori del caso.

Per quanto i motivi di tale rimandare si possano individuare nelle precise analisi registrate dalla sociologia contemporanea: necessità di una maggiore istruzione, difficoltà di inserimento lavorativo, scarsa disponibilità di alloggi, posposizione della maternità e della paternità, etc.; io credo che buona parte di questo tergiversare debba, anche qui, essere ricondotto alla messa in discussione del passato e del futuro.

Nemmeno l'adolescenza, nonostante si coniughi decisamente al presente, può, infatti, fare a meno del passato. Anzi, forse più di altri, proprio l'adolescente necessita di un passato (da contestare, emulare, contemplare.), per trovare le coordinate della propria autonomia e della propria indipendenza. E, d'altro canto, proprio l'adolescenza, che incarna l'attimo fuggente della vita che, lì, per un attimo non fugge, forse più di altri necessita di un futuro (da immaginare, sperare, progettare.), per disegnare le rotte di altri mondi possibili in cui versare la propria avventura, in cui spendere i perché del proprio esistere.

Senza passato, senza futuro, il presente, e l'adolescenza quale sua umana incarnazione, si dilatano all'infinito in un tempo non-tempo che, dandosi l'aria di esistere, trascina se stesso e i suoi ammennicoli nel gorgo di un buco sempre più nero. E il tempo che non c'è, diventa l'unico tempo possibile.

L'idea su cui intendiamo ricamare le nostre elucubrazioni, si fa luce proprio a partire da questa frustrazione profondamente intrinseca alla società contemporanea occidentale: l'incongruenza di vivere in un tempo che, di fatto, non c'è, che non c'è mai stato, certo, ma che, a differenza di ieri, l'inconsistenza del passato e l'indeterminatezza del futuro, mentre lo squalificano fino a fargli perdere i connotati, contemporaneamente sembrano materializzarlo, renderlo "unico", "vero": materia ectoplasmatica che, paradossalmente, appaga, riempie.

"Quand'ero adolescente non sapevo di essere adolescente".
Ecco allora che la frase di Enzensberger, parafrasata e ricontestualizzata sul pentagramma di queste apparenti digressioni, acquista un sapore nuovo e ci dirige al centro del nostro discorrere.

Non sapere di essere adolescenti era la condizione dei ragazzi e delle ragazze fino a qualche decennio or sono; fino a quando, cioè, il passato e il futuro sono riusciti, nonostante tutto, a tenere bordone.

La condizione dell'adolescente contemporaneo è, viceversa, di estrema consapevolezza rispetto alla fase della vita che attraversa. Egli sa di essere adolescente. Conosce le minute condizioni, le intime contraddizioni, le infinite posizioni, le studiate evoluzioni della sua età così particolare. Le ha interiorizzate in una sorta di discorso parascientifico, mutuato dal grande circo dell'adultità che, da qualche lustro, ha cominciato a nominarlo, classificarlo, interrogarlo, sezionarlo, interpretarlo. Che ne ha fatto, insomma, non solo un gran parlare, ma anche un gran rappresentare, mistificare, demonizzare. e per una precisa ragione -e qui torniamo alla nostra tesi: il bisogno di concretare il presente.

In un'epoca senza passato e senza futuro, parlare l'adolescente, curare l'adolescente, raffigurare l'adolescente, teorizzare l'adolescente, altro non è che il tentativo estremo di creare quel presente che non c'è, che non c'è mai stato quanto adesso e che, pure, pare il solo tempo cui aggrapparsi, data l'incertezza del passato e del futuro.

Ma era inevitabile che arrivassimo a questo punto. Il presente, difatti, è il tempo del consumo per eccellenza. Si consuma alla velocità in cui si crea; agognato senza possibilità di soddisfazione: desiderio rimandato, continuamente rinnovato e rinnovabile.

In un mondo segnato dalla tensione sistemica e globale alla mercificazione del tutto, il presente è la merce per antonomasia. Anzi, è l'humus, la linfa, il liquido amniotico entro cui l'esistenza dell'Uomo contemporaneo occidentale, improntata al consumo dipendente e acritico, galleggia beatamente.

Più il presente presentifica l'esistenza, più la riduce ad un attimo inafferrabile da rincorrere senza certezze, e più le merci che nel suo liquido fluttuano si fanno simulacro dell'illusione estrema di afferrarlo.

Compro, dunque sono. La merce mi incarna al presente indicativo del verbo essere.

E chi, se non l'adolescente, può rappresentare l'Eroe di questa contemporaneità così consumata e consumabile? Chi, se non l'adolescente, può interpretare il ruolo del paladino immortale costretto a vivere sempre al presente?

Non a caso proprio l'adolescenza o, per estensione, l'idea di una gioventù continuamente rinnovabile, è uno dei topoi più invasivi con cui la propaganda commerciale ammanta i suoi soggetti e i suoi prodotti.

Tra le tante e articolate formazioni discorsive che hanno determinato la particolare e storicamente inusitata circostanza di questo non-tempo che presiede l'esistenza, il discorso dell'adolescenza come valore aggiunto capace di ammantare la merce stimolandone l'acquisto, si rivela, infatti, particolarmente significativo e, per alcuni versi, persino fondativo, ma, a ben vedere, in modo anomalo, rispetto a quanto ci si potrebbe aspettare.

Ad una attenta osservazione, l'adolescente in quanto tale, di rado compare fisicamente, come soggetto antropologico, nella grammatica della propaganda. Il suo esserci è per lo più metonimico; appare, cioè, per allitterazione di simboli che incarnano alcuni dei caratteri dell'adolescenza e, attraverso rapporti di contiguità spaziale, temporale o causale, li riversano su oggetti o soggetti che non possiedono quelle caratteristiche ma, attraverso le quali, come dicevamo, finiscono per dare valore ad una merce.

Basta finire in un paio di gironi di "consigli per gli acquisti" per rendersi conto che, nelle forme della pubblicità, l'adolescente fisico: quello che incontriamo la mattina in ascensore, sul tram, nelle aule di scuola; quell'adolescente non è (quasi) mai contemplato.

Tutto il resto del bestiario umano non sfugge alla rete della propaganda: dai "bambini nazisti della kinder", come dice Brizzi nel suo Jack Frusciante, alle casalinghe seduttive in guerra contro gli acari, al maschio romantico e sciupafemmine, la donna fatale, l'arzilla vecchietta fino, ultimamente (vera e propria evoluzione che la dice tragicamente lunga su come la pubblicità sia sempre un passo avanti rispetto a qualsiasi legislazione), alle coppie di fatto, o quelle divorziate con figli annessi.

Certo, la pubblicità procede per stereotipi e la casalinga che nel commercial lucida l'argenteria assomiglia ben poco alla figura della "mamma" cui siamo abituati (anche se è sempre meno vero). Tuttavia, seppur stereotipate, seppur affettate, le categorie ci sono e in gran misura. Non solo. Si spostano pure da un prodotto all'altro con estrema indifferenza e naturalità: capaci di promuovere il preservativo come la merendina nutriente.

Ma l'adolescente, no. L'adolescente in qualche modo c'è sempre, ma non c'è mai -come l'inafferrabile presente, d'altronde. Anche quando non se ne può proprio fare a meno, l'adolescente pubblicizzato non è (quasi) mai tale, ma sempre qualcuno che ne fa le veci: il bambino macchietta che gioca a fare l'adolescente, o il giovane adulto che adolescente è rimasto. Persino quando il prodotto ammicca all'adolescente, l'adolescente non è (quasi) mai il testimonial delegato ad alimentarlo.

È come se la pubblicità di fronte all'adolescente, dovesse improvvisamente cambiare registro linguistico e, anziché restituircene lo stereotipo, come per tutte le altre categorie della crescita umana, fosse costretta a sostituirlo con una di queste. Ma perché?

Perché la propaganda commerciale, così capace di sfruttare al meglio le forme ipnotiche che incitano al consumo, recalcitra di fronte alla rappresentazione fisica dell'adolescente che pur ne è, secondo il nostro cogitare, l'icona; mentre non si scompone quando lo spreme come simbolo (di spensieratezza, voluttà, erotismo, salute, bellezza, etc.) denso di evocazioni tutte vendibili?

La risposta sta, ancora una volta, nel potere dell'adolescente di scolpire il presente. Solo che il presente dell'adolescente è, per così dire, impresentabile agli occhi di chi, quel presente, l'ha già consumato e l'apparire dell'adolescente solo può essergli monito di vissuti, ricordi che, buoni o cattivi, avrebbe preferito tenere sotterrati.

È l'idea dell'adolescenza quella con cui il consumatore vuole trastullarsi, non l'adolescente. L'adolescente è troppo presente. Rammenta, a un mondo adulto spaesato in un tempo che non c'è, che il presente non gli appartiene e che, quindi, nella società odierna, nessun tempo gli appartiene.

Per contro, il corpo dell'adolescente, carne di confine sospesa tra mascolinità e femminilità, tra infanzia e adultità, tra innocenza e corruzione, tra passato e futuro, pulsa nel Qui e Ora di tutte le strade potenzialmente immaginabili. Per questo è corpo intelligibile, ma anche irritante, molesto, inguardabile per chi, di tutte quelle strade, più non vede che un sentiero senza bivi che si dissolve al suo passare.

Tutti noi, potenziali consumatori, siamo allora chiamati a confrontarci con la sola immagine accettabile dell'adolescenza: quella dell'adolescente che non c'è e in cui, per sostituzione, per transfert, veniamo spinti a riconoscerci e ad immedesimarci.

Sia che la nostra adolescenza sia stata bella ed esaltante, sia che sia stata terribile o addirittura inesistente, i frenetici e insidiosi psicodrammi della propaganda ci invitano a convocare i momenti reali o immaginifici di quelle emozioni irripetibili, di quella spensieratezza, di quel desiderio senza freni, di quell'erotismo inquieto, di quella salute nonostante tutto, di quella bellezza; quei giorni in cui il presente ci scorreva davvero tra le mani.

È, insomma, attraverso l'assenza dell'adolescente che ogni generico consumatore può reincarnarsi nell'adolescenza, trasferita per metonimia su una merce o su un servizio il cui acquisto consente di tornare pedissequamente a palpare il presente. E, d'altra parte, è del sistema persuasivo pubblicitario, sollecitare il bisogno dell'Uomo contemporaneo di essere riconosciuto come vivo offrendogli, nell'acquisto di una merce, la possibilità di fare propri elementi distintivi altrimenti non acquisibili. E cosa c'è di più vivo se non l'adolescenza?

Ora, la considerazione che completa il senso di queste argomentazioni, è che, nonostante tutto, come ben sappiamo, nemmeno l'adolescente è al riparo dalle trappole seduttive dell'adolescenza reclamizzata.

La sostituzione dell'autentico adolescente con un suo succedaneo, soprattutto quando questo è una specie di adulto che conserva tutti i caratteri dell'adolescenza ma combinati con un potere d'acquisto illimitato, spinge difatti anche l'adolescente tra le braccia fameliche del consumo ad oltranza, bramando nella merce non il presente che incarna, ma la possibilità concreta di incidere sul e nel presente.

L'adolescente, infatti, se è vero che si caratterizza come personificazione del presente, è anche vero che, quel presente, ha ben poca forza per determinarlo -così saldamente preda dell'adulto che, pur non possedendolo, lo gestisce: estrema ratio dell'impotenza.

Possiamo dire che, mentre per il consumatore generico l'adolescenza, quale valore aggiunto della merce, si impone in virtù di un surrogato che stimola e favorisce l'ingresso in un clima di felice ed euforica "normalità" (magicamente rappresentato all'interno di un mondo per nulla diverso dal nostro, ma in cui il prodotto costituisce il terminale necessario per esaudire il transfert dalla favola alla realtà); attraverso lo sguardo dell'adolescente quello stesso surrogato si trasforma in esemplare, non differentemente da tutti gli altri costrutti di cui la pubblicità si foggia, e compartecipa al medesimo effetto transferale.

Surrogato o esemplare, l'adolescenza, con la sua capacità di affermare il presente, diventa, allora, una dei simboli più efficacemente utilizzati dal discorso della propaganda e, attraverso la sua ridondanza, si impone come vero e proprio paradigma esistenziale.

L'elusione delle rassicuranti categorie del tempo che permettevano di destinare un posto più o meno certo ai fenomeni, alle cose e alle persone, sembra convergere, in ultima analisi, verso un finale comune: lo stato dell'adolescenza come tensione cui aspira l'Uomo contemporaneo.

Così, l'essere adolescente evade dalla sua stessa connaturazione anagrafica e si fa emblema dell'umanità, metafora che contiene tutti i tossici della postmodernità: essere desiderante e senza freni che si ripete in infiniti duplicati tutti tesi alla non-differenziazione e le cui idee, costumi, paure, gusti, voglie, sembrano anch'essi emergere indifferentemente.

L'adolescenza, metafora dell'uomo contemporaneo, si configura quindi quale luogo per eccellenza in cui si concentra sia la rassicurante sensazione di contiguità del presente, in grado di mitigare la nebulizzazione del passato e del futuro, sia la conseguente esistenza consumista necessaria a perpetrare quella sensazione. Un vero e proprio cortocircuito, interdipendente e autorigenerantesi.

L'era in cui viviamo è l'Era dell'Adolescenza: il presente delle cose che si danno tutte insieme in uno spazio-tempo che non sembra avere soluzione di continuità. Milioni di eventi che precipitano contemporaneamente e che, con le loro incessanti sollecitazioni, producono un'interruzione nella percezione della profondità del tempo. Tutto accade adesso, davanti al nostro sguardo e, anche quel tutto, si rizomatizza in infiniti ipertesti che ci collegano ad altrettanti infiniti altrove, mischiando ogni forma in un oggetto dai contorni sempre più sfumati e confusi, ma ricco di implicazioni materiali.

Fusa e confusa in questo cosmo, esortata e condizionata dalle sue promesse, allontanata e sviata dal suo inesorabile destino mortale, la struttura psichica dell'Uomo contemporaneo occidentale si rivela, sempre più quella di un adolescente che fatica a percepire i suoi confini, chiuso in un mondo di -apparente- illimitato benessere, un territorio che cerca di vagliare con quella che appare l'ultima bussola a sua disposizione: la merce, solo dispositivo in grado di consegnarlo al presente.

Era il 1911 quando, in uno dei suoi più avvincenti racconti, Jack London scriveva: "Era diventato uomo molto presto. A sette anni, quando cominciò a percepire i primi salari, cominciò la sua adolescenza". Non è ancora passato un secolo, ma già quel mondo, dove gli adolescenti erano costretti a diventare uomini fin da bambini (sette anni!), è diventato il mondo in cui gli uomini sono costretti a diventare adolescenti.

Questa evidenza, probabilmente impossibile in altre epoche, in quanto frutto dell'ipervelocità dei cambiamenti cui siamo soggetti, mi pare dimostrare come ci sia un inestricabile tempo del cuore che pulsa e che accompagna inesorabile il corpo che si guasta, e poi un altro tempo, un più artificioso tempo del potere, necessario a chi governa gli uomini e le cose per fare, come si dice: "il bello e il cattivo tempo".

Di questo tempo, da sempre spartito tra chi governa il mondo finito e -appunto- temporale degli uomini e chi il mondo eterno di un presumibile Dio, dovremmo fare oggetto di una più attenta pedagogia, chiamando non solo i ragazzi, ma gli adulti tutti (e in primo luogo quelli che con i ragazzi hanno quotidianamente a che fare), a riflettere e soprattutto a praticare, in forma di esercizio, tutti quei temi che convergono a negarlo e che, non a caso, sono diventati tabù impronunciabili nella gran parte dei contesti educativi: la morte, la memoria, il sacrificio, il differimento del desiderio, la fatica, la frustrazione.

Tutti argomenti che la pragmatica dell'educazione sembra aver dimenticato, o comunque non tenere in gran conto; troppo presa a difendere, proprio come la propaganda commerciale, un'idea acritica dell'adolescenza mentre, contemporaneamente, annichilisce e insulta, nelle sue pratiche, il suo -fino a prova contraria- unico e legittimo protagonista: l'adolescente, appunto.

Lo annichilisce e lo insulta quando ne fa il capro espiatorio del proprio senso di colpa; quando cioè, vedendo in lui i caratteri mostruosi del presente, lo chiama astrattamente ad uno scatto delle reni, attende da lui un riscatto sul mondo che fatica a venire in absentia di un adulto che si assuma fino in fondo il ruolo di testimone del passato e condivida la fatica creativa del futuro. Ma lo annichilisce e lo insulta anche quando, al contrario, preda di un astratto sindacalismo giovanilista, non vede i caratteri di mostruosità del presente che l'adolescente incarna e non lavora con lui in direzione di una loro comprensione e di una loro riconversione, pagando il prezzo della proposta faticosa e impopolare, anziché dell'adesione tout-court alle facili voglie e ai facili desideri che, specchio (spesso) dei condizionamenti del presente, non possono che perpetrarne il dominio. Lo annichilisce e lo insulta, insomma, quando, in entrambi i casi, non ne riconosce il carattere di simulacro in cui si specchiano le moderne società occidentali e non si prodiga con dispositivi e strategie capaci di sconsacrarlo, smascherarlo, attraverso vere e proprie azioni iconoclaste, non contro l'adolescente, ma insieme all'adolescente contro la raccapricciante immagine del suo mito che fa corpo con l'odierno concetto di presente; e costruttivamente e creativamente: epurandolo dalla sua orrida sacralità per lasciarne, a monito, il nudo monumento.

Credo sia questa la battaglia da condurre: lavorare alla dissoluzione di questo presente che crede di bastare a se stesso e prende le sembianze dell'adolescenza per convincersi e convincerci di bastarsi ad eternam.

Una battaglia radicale, com'è radicale la violenza con cui questo presente tenta di imporsi e si impone. Una battaglia, soprattutto, difficile da condividere perché, come ci ricorda la frase di Enzensberger citata al principio di questo sproloquio, il presente, con tutti i suoi annessi e connessi, per lo più lo si subisce, quasi mai lo si avverte.

"I figli," sostiene Pier Paolo Pasolini in un bellissimo articolo tutto da sottoscrivere, "devono pagare le colpe dei padri. Infatti, i figli che non si liberano delle colpe dei padri sono infelici: e non c'è segno più decisivo e imperdonabile di colpevolezza che l'infelicità. Sarebbe troppo facile e, in senso storico e politico, immorale, che i figli fossero giustificati -in ciò che c'è in loro di brutto, repellente, disumano- del fatto che i padri hanno sbagliato. L'eredità paterna negativa li può giustificare per una metà, ma dell'altra metà sono responsabili loro stessi".

Su queste metà, su entrambe queste metà, la pedagogia è chiamata a lavorare.


Massimo Silvano Galli

L'Eroe Adolescente   

da: Traiettorie impercettibili -a cura di P. Barone, ed. Guerini e Associati, Milano (2005) di Massimo Silvano Galli
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