[...] Entriamo dunque in conflitto.
Proviamo ad utilizzare le cose che sappiamo, mettiamole insieme anche se lontane tra loro o apparentemente inconciliabili. Prendiamo la matematica, la fisica, le lettere, la pittura, la geografia, la storia, la musica e proviamo, sforziamoci di vedere il mondo diversamente da come ci appare. Poi, quando il quadro del nostro pianeta è tornato per un attimo a mostrarci, non la verità, ma almeno "un'altra" verità, prendiamo tutte queste belle cose e insegnamole agli Uomini più giovani di noi e insegnamoli anche a vedere dietro ognuna di queste cose, a scoprire che dietro la descrizione di una porta c'è sempre un mondo intero da scrutare, che non esiste la verità, ma esistono "le verità" e ognuno di noi può andarle a cercare armato degli strumenti della conoscenza.

Proviamo allora ad immaginarci questo mondo diversamente da come ci appare e immaginiamo, per esempio, che la scuola non nasca per diffondere il sapere, ma per controllarlo. Attenzione, non è la verità. E ' solo una parte della verità, un'altra verità possibile e non meno credibile di tutte le altre.

Poniamoci una domanda: il progressivo ed esponenziale aumento del numero di scuole successivo all'invenzione di Guttemberg, è dovuto solamente ad una maggiore disponibilità di testi o alla necessità di controllare una nascente e (probabile) troppo libera diffusione del sapere?

E ancora: un ragazzino delle scuole elementari può attraverso la scuola amare e idolatrare Adolf Hitler, o Benito Mussolini, Stalin, Franco, allo stesso modo in cui può assoggettarsi alla logica del consumo? Ossia: può la scuola di una società malata produrre individui che sappiano riconoscere e combattere questa malattia?

Potremmo continuare all'infinito, anche senza darci risposte, ma facendo sorgere il più importante elemento distintivo dell'essere Uomini: il dubbio.

La scuola del mondo che ci avvolge è tanto lontana da questa possibile visione da farla sembrare un'utopia. Non è la nostra scuola, in ogni suo ordine e grado, il luogo della conoscenza; al massimo dei suoi sforzi riesce ad essere il luogo dell'informazione capace di creare persone dotate di competenze, ossia persone prive di un reale fondamento culturale e quindi anche di un personale punto di vista, ma ricche di professionalità vendibili: soldatini pronti a produrre e consumare, sprofondati nella gora del sistema che li ha generati.

E' un istruzione che mette al centro del suo lavoro nuove metodologie educative e innovative metodologie pedagogiche ma che, al contempo, pare staccarsi completamente dal centro profondo dell'Uomo. Certo, è lo stesso processo in atto nella società tutta, e sarebbe incredibile che ciò non accadesse. Ma è questo l'Uomo che vogliamo che esca dalle nostre scuole? Sembrerebbe di sì. Sembrerebbe proprio che generazioni e generazioni di "formati professionalmente", di detentori di una cultura parcellizzata, non riescano nemmeno più a vedere che questa istruzione altro non è che un lobotomia che partecipa, insieme a tutto il resto, all'istupidimento delle masse.

Certo, non dobbiamo pensare all'intervento grezzo e manifestamente violento che ha caratterizzato e caratterizza le scuole di regime: milioni di bambini educati a venerare il duce del momento, bensì ad un meticoloso e inconscio lavorio di manipolazione che inizia dall'ignoranza e dall'inconsapevolezza degli educatori stessi. Per dirla come Anatole France "Un imbecille è più funesto di un malvagio: perché il malvagio qualche volta si risposa, l'imbecille mai", e questa è la sola differenza tra la scuola di regime e la nostra scuola.

Dov'è finita dunque l'idea che istruirsi significhi diventare coscienti della cultura dell'Uomo in senso lato per provare a partecipare e contribuire alla crescita di se stesso e dei suoi simili?

Se la scuola è in grado di insegnare ad amare ed ammirare tristi figuri come Hitler e consimili, perché non è in grado di insegnare una visone critica del mondo e delle cose?

Prendiamo, ad esempio, la televisione. All'età di ingresso nel mondo della scuola e ipotizzando (per difetto) che dai tre ai sei anni abbia frequentato la televisione almeno un'ora al giorno, a quanti spot pubblicitari avrà potuto assistere un bambino? Stiamo parlando di una cifra che, sempre al ribasso, supera la diecimila unità. Se a questi aggiungiamo quelli radiofonici, quelli sugli enormi cartelloni stradali, ecc. le dimensioni del sovraccarico simbolico e dell'incitamento al consumo non hanno precedenti nella storia dell'umanità.

Così, anche soprassedendo al significato culturale delle immagini scaturite dalla pubblicità, all'ingresso nella scuola dell'obbligo due mondi, due media entrano immediatamente in contrasto: quello della parola stampata: fondato sulla logica, la storia, i rapporti di successione; e quello della televisione: imperniato sulla simultaneità degli eventi, la grafica suggestiva, il suono. Non si tratta necessariamente di un contrasto negativo, ma che diventa negativo nel momento in cui la facilità e la suggestione del secondo finiscono per sopraffare la necessaria fatica e le indispensabili difficoltà del primo. Così il media televisione finisce per annientare il media stampa e quest'ultimo pare così scarno di strumenti e di soluzioni da essere incapace di affermare se stesso e dover adeguarsi alla logica e al linguaggio del secondo.

D'altra parte vi sembra possibile che una società che ha eletto il consumo a suo nuovo Dio, utilizzi lo strumento primario alla formazione dei suoi cittadini per insegnargli a criticare e a diffidare di quello stesso Dio?

Ci hanno insegnato, ci insegnano, insegneranno ai nostri figli ad essere dei bravi e professionali cittadini di questo sistema, a conoscere quel poco che basta per occuparsi di sé e dei propri limitrofi e contigui interessi e ci diranno, ci dicono che è per il nostro bene, per la nostra felicità.

Ci stupisca che tra gli allievi di Socrate e Platone e Aristotele ragazzini di 12 anni discutessero di logica e metafisica e oggi sbalordiamo se alla stessa età sanno scrivere e leggere correttamente; e ci stupisca, senza andare troppo indietro nel tempo, Rousseau che incita i ragazzini alla lettura del Robinson Crusoe, mentre nelle nostre librerie, sempre più deserte di lettori, si riempiono di -guarda caso- parcellizzanti bollini che a seconda delle età dividono la cultura in frammenti di consumatori.

E' una scuola che prepara alle dipendenze e, in primo luogo, non insegnando a conoscerle e difenderci da esse [...].



Massimo Silvano Galli

La scuola delle dipendenze  

da: Making reality -saggio (1999) di Massimo Silvano Galli
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