“Rivendico il diritto di avere delle idee diverse dal mio contocorrente.”.

La frase, pregna e apodittica insieme, è uscita dalla bocca insospettabile -o almeno a me insospettabile- di Boris Becker (credo si scriva così… insomma, il tennista) e mi pare perfetta per dare la stura a questa letterina natalizia che vuole affondare per l'ennesima volta in denti nel regime contraddittorio in cui viviamo che, proprio nei giorni contigui al Natale, si manifesta in tutta la sua schizofrenia: da una parte la tensione al denaro cui tutti siamo segnati (non solo come accesso ai privilegi, ma anche come corresponsione delle singole qualità), dall’altra la voglia di un mondo diverso.

Ma proviamo a guardare questa contraddizione un po’ più a fondo.

Io, ad esempio, abiuro o mi sforzo di abiurare, l’assioma denaro = privilegi, nell’unico modo possibile: rinunciando quanto più ai privilegi, combattendo i privilegi.

Non mi frega assolutamente nulla di “fare i soldi” come si è usi dire; di accedere al possesso. Eppure sono un privilegiato. Non solo rispetto, chessò, al solito esempio del coetaneo terzomondista, ma persino rispetto a molti miei coetanei occidentali, persino rispetto ai miei genitori. Ma non mi basta essere un privilegiato, pur non volendolo… Faccio anche di più: mi sforzo, lavoro, cercando di guadagnare, di guadagnare il più possibile. Brandisco l’alibi del denaro come un unico e solo modo che questa società ha per dimostrate quanto vali. Una sorta di convenzione che tra l’altro non significa (almeno per quel che mi riguarda): “Se mi pagano tanto, vuol dire che valgo tanto” (orrore), bensì: “Mi faccio pagare il più possibile perché questo è l’unico modo (qui, e sottolineo qui) affinché l’altro riconosca il mio valore”.

Ma, come si può intuire, per quanto me la racconti, anche questo mio credere, comunque sia, nel denaro, altro non è che un modo come tanti per stare dentro la realtà, per sopravvivere dentro a questa realtà, dentro una realtà che è mia, nostra e in cui il denaro la fa, volenti o nolenti, da padrone.

Insomma, mettetela come credete, ma ognuno di noi, se vive qui, deve in qualche modo maturare un suo rapporto con il denaro. Se non lo fa (consciamente o inconsciamente), se lo rifiuta, è un alienato che, tuttavia, non ha capito che per essere fuori da qualcosa bisogna, in qualche modo, starci dentro.

Partiamo dunque dal presupposto che vivere in questa società significa, anzitutto, maturare un proprio rapporto col denaro.

Il denaro, dunque, per come funziona questo nostro mondo, è, se non l’unico, almeno uno degli spartiacque più semioticamente potenti: simbolo in grado non solo di generare divisioni filosofiche (anche ideologiche), ma anche capace di restituirci, proprio attraverso queste divisioni, una certa interpretazione della realtà e di come i suoi bipedi esemplari vi si sono adattati per -dicevamo- sopravvivere attraverso atteggiamenti (è fondamentale sottolinearlo per il nostro discorrere) consapevoli, ma anche con atteggiamenti inconsapevoli, che si riverberano del dichiarato e spesso, appunto, si contraddicono nell’agito.

Quali sono, dunque, a parte quello dell’alienato, gli altri modi per rapportarsi con il denaro?

Be’. anzitutto, si può non pensarci, evadere il problema.

Un atteggiamento vicino all’istintualità animale, mi verrebbe da dire, che -se ben osservato- richiama l’agire che hanno con la vita quegli uomini ancora confinati alle periferie della civiltà –senza dare a questi termini alcun valore positivo o negativo.

Penso a certe tribù dell’Amazzonia, dell’Africa, etc. Uomini che sono rimasti Uomini nella loro elementarità e che, osservandoli, riusciamo per un attimo a comprendere l’essenza minimale della vita: svegliarsi, mangiare, riprodursi, dormire e, infine, morire. A questa elementarità, che la civiltà umana ha, per così dire, alterato con la cultura, i personaggi di questa prima categoria di rapporto con il denaro, hanno semplicemente aggiunto, epoca dopo epoca, appunto, le varie deformazioni culturali che si innervavano in quell’elenco primordiale di mangiare, riprodursi, dormire e, infine, morire. Hanno incluso, chessò: divertirsi, consumare, magari anche comportamenti nobili come leggere, conoscere, etc., ma li hanno introdotti senza modificare l’atteggiamento di base: assorbendo cioè queste alterazioni come reazione istintiva agli stimoli di necessità, ai bisogni indotti, che di volta in volta provenivano dall’esterno, cioè dalla società in evoluzione.

Bene, a questa categoria, se ci pensiamo bene, apparteniamo un po’ tutti, e vi apparteniamo tanto più ogni qual volta evadiamo dal riflettere e dallo scandagliare, in quanto esseri pensanti e con gli strumenti della cultura elaborata, le diverse protesi di civiltà con cui ci troviamo a rapportarci. E, poiché questa società non è certo avara di inutili suppellettili che continuamente ci spaccia come indispensabili, può capitare e capita che alcuni di essi ci sfuggano, che li si accetti supinamente, senza appunto pensare, ma assorbendoli come una delle tante cose che diventano indispensabili al nostro sopravvivere -ma indispensabili non sono.

La seconda categoria, invece, è quella di coloro che sposano l’idea che il denaro sia la felicità e che non solo dicono: “Tanto più sono ricco, tanto più posso accedere ai privilegi”, ma, aggiungono: “Tanto più sono ricco, tanto più valgo”.

Questo atteggiamento si commenta da sé, ma non va sottovalutato. Appartengono a questa schiera tutti quegli uomini che, per farla breve qualcuno (in maniera davvero impropria) definisce (a prescindere da come votino) di destra. Quelli perfettamente in trand con l’andamento dei costumi, dell’etica e della morale contemporanea (o forse sarebbe meglio dire della storia dell’Uomo?).

Io, mi verrebbe da dire, non appartengo certo a questa categoria. E forse voi neppure pensate di appartenere a questa categoria. Eppure, eppure… Se ci guardiamo bene in fondo e con sincerità scopriamo che anche qui, anche in questa categoria, finiamo per essere inclusi.

Non fraintendetemi. Non ne siamo inclusi per quello che pensiamo, ma per come siamo “costretti” (costretti?) ad agire. E il nostro agire, se lo eviriamo dalla possibilità di “dire”, proclama indistintamente un solo enunciato: ”Il denaro è valore sociale spendibile per comprare quei privilegi che testimoniano quanto valiamo”.

Non credo di aver bisogno di fare degli esempi, è sufficiente che ognuno di noi guardi un qualsiasi giorno della nostra vita per scorgere episodi e situazioni che confermano questa affermazione.

Solo se possiamo verbalizzare questo agire, possiamo di conseguenza passare da questa categoria alla prossima, che poi la frase di Becker bene sintetizza: “Rivendico il diritto di avere delle idee diverse dal mio contocorrente”.

Si tratta della categoria di chi da una parte vive questa tensione al denaro, legittimata e quasi obbligata dalla realtà del nostro quotidiano, mentre, e dall’altra matura idee, pensieri, un modo di vedere le cose drasticamente divergente da questa società e dalla sua tensione al denaro.

Secondo alcuni (in modo altrettanto improprio) appartengono a questa categoria, gli uomini della sinistra, quelli che si sentono a disagio in questa società; che così com’è questa società non gli va bene; che, insomma, vorrebbero cambiarla.

Le bandiere della pace, le manifestazioni contro la guerra, sono uno dei tanti modi possibili per dire: “Rivendico il diritto di avere delle idee diverse dal mio controcorrente.”.

Ma, attenzione! Il fatto di dichiararlo non esclude, non basta per escludere la realtà: e cioè che comunque io, noi, tutti quelli che vivono qui, apparteniamo anche alla seconda e persino alla prima categoria.

E’ cioè fondamentale dirsi, sapere, che il principale metodo di controllo sociale è diventato la corruzione generalizzata; la corruzione di uomini e donne che, comunque la pensino, non sarebbero più in grado di rinunciare ai propri privilegi, al proprio corrotto rapporto di sudditanza con il denaro, per far valere le proprie idee e il proprio pensiero. Uomini che, per sintetizzare, rispondono a questi tre dettami appena elencati e su questi si fanno cittadini del complesso meccanismo capitalista.

Primo: assorbono inconsapevolmente protesi (tecnologiche o meno) simbolo di questa società fondata sul denaro, protesi che chiamano direttamente e senza soluzione di continuità ad atteggiamenti consumistici, ovvero ad un uso del denaro per l’usufrutto di privilegi magari superflui ma che abbiamo integrato come indispensabili.

Secondo: affermano, con il loro agire quotidiano il valore del denaro come simbolo per accedere ai privilegi sostenendo continuamente nelle loro azioni che “più denaro hai più stai bene”, certo con intensità che differiscono a seconda delle persone, ma da un punto di vista semantico c’è davvero così tanta differenza tra il dire una sola volta “Sono d’accordo” e dirlo mille volte?

Terzo: per quanto in apparente minoranza (ma non crediate che siano così pochi, anzi), dichiarando di non sentirsi affini a questo mondo e alle sue leggi, affermando in vari modi e a diverse frequenze, di volere un mondo diverso, ma credendo ingenuamente di poterlo realizzare semplicemente affidandosi ad un altro consumo. Si badi bene, non: rinunciando al consumo, ma avvalorandone un altro per frenesia e quantità identico ma che, si ritiene più buono, più corretto o, come si è usi dire: “più equo e solidale”.

Si tratta, come molti sapranno, di una modalità di fare impresa non basata sulla massimizzazione del profitto tipica del capitalismo, ma sulla lotta allo sfruttamento e alla povertà cercata sviluppando canali commerciali alternativi a quelli dominanti, al fine di offrire sbocchi commerciali più consoni ai singoli produttori, per evitare che restino schiacciati dalle politiche monopoliste delle grandi multinazionali.

Ma la questione di fondo non cambia se ad un consumo se ne sostituisce semplicemente un altro e non viene minata, invece, e alla radice, l’idea stessa del consumo.

Poiché è proprio attraverso il consumo che noi -qui e ora- affermiamo noi stessi, cercando continuamente la soddisfazione dei nostri desideri e, quanto più denaro possediamo, tanto più possiamo consumare, ossia soddisfare i nostri desideri, il che equivale a dire: tanto più esistiamo.

Portarsi fuori da questo assioma significa essere capaci di adottare un atteggiamento di totale rinuncia ai propri desideri, raggiungere quella “calma del mare interiore” di cui ci parla Gautama Buddha, quella serafica serenità di un uomo che non desidera più nulla al mondo -che, al di là di tutte le farneticazioni religiose, è poi essenzialmente un atteggiamento di consapevolezza, di profonda riflessione su ogni cosa, di interrogazione su tutto quello che ci accade davanti e dietro e sotto gli occhi… ma tutto, proprio tutto, più di tutto.

Issiamo fuori dai nostri balconi bandiere della pace e ci buttiamo nelle strade per fermare le guerre, ma poi non riusciamo a fermare noi stessi e allunghiamo le mani per accaparrare ogni merce che solletica i nostri desideri.

Ecco allora la mia letterina di Natale che qualche Babbo, con o senza slitta, mi auguro voglia accogliere.

Che il mondo sia un continuo e imperterrito materiale di riflessione.

Che prima di incentivare in qualsiasi modo questa legge del consumo, questo bisogno insopprimibile, questa dipendenza tossica nel cui nome tutto è concesso: dall'omicidio all'autodistruzione; tramite la quale ogni soggetto acquista vitalità nelle modalità e nella misura in cui... consuma; con la quale il baricentro delle necessità si è ampliato a dismisura racchiudendo nel concetto dell'indispensabile, il superfluo, il dispensabile… ognuno trovi la forza di chiedersi cosa sta facendo, cosa significa, che implicazioni ha…

Che ognuno torni a pensare, anzi, a Pensare.

Che ognuno smetta di farsi fregare da tutto quello che ci propinano. Non dobbiamo più credere a niente di quello che ci dicono, dobbiamo addirittura smettere di ridere e di farci abbindolare da questi comici che, spronandoci a ghignare della follia del mondo, ci impediscono di essere assolutamente incazzati. Dobbiamo diventare maledettamente seri, dobbiamo smettere di sentirci rappresentati, dobbiamo rifiutarci di perdere la vita nella gora dell’intrattenimento e tornare a usare il nostro tempo per ricostruire il mondo. Dobbiamo, in una parola, provare a cambiare la Storia. Non la storiografia, ma la Storia.

Scrive Pasolini: “La nostra colpa è quella di credere che la storia non sia e non possa essere che la storia borghese” che, in altre parole, non possa esistere felicità al di fuori della felicità del possesso e del benessere economico; l’idea cioè che il male peggiore del mondo, il male da estirpare collettivamente e individualmente sia quello della povertà.

Per tutta la prima rivoluzione industriale, cioè prima che il consumismo si affermasse come struttura psicologica degli abitanti del nostro sistema, esisteva tra sfruttatori e sfruttati un rapporto di alterità, non di alternativa. Gli sfruttati proponevano cioè un sistema che avrebbe dovuto modificare radicalmente, nelle sue fondamenta più profonde, la cultura dominante degli sfruttatori.

Oggi è evidente che non è più così. Oggi non è oggettivamente possibile, perché non c’è una cultura dell’alterità. Oggi, al massimo dell’estremismo, qualcuno arriva a proporre un’alternativa, un altro mondo possibile. Ma è un mondo che, per quanto divergente, continua comunque a restare dentro i paradigmi della stessa cultura dominante, è un mondo che non vuole rinunciare al privilegio di diventare globalmente borghese, globalmente ricco.

Qualsiasi dichiarazione di non adesione a questo sistema che non abbia alla base questa consapevolezza, altro non è che una rimozione, un tentativo estremo e puerile di difesa attraverso il quale si cerca di sopprimere quella che al nostro inconscio pare una verità inaccettabile: il fatto di dover combattere contro la nostra (indotta e falsa) felicità, in quanto felicità di una cultura e di una classe dominante, quella classe che manda il mondo in guerra per difendere i suoi (nostri) privilegi.



Massimo Silvano Galli

Sul danaro   

da: Letterina di natale 2006 di Massimo Silvano Galli
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