[...] Nel centro esatto di un immenso vuoto naviga e fluttua un nuovo Uomo che ha sostituito tutti i prototipi ominidi precedenti: è l'Uomo Consumens, o l'Uomo Massa, evoluzione involutiva dell'Uomo economico di Adam Smith, essere qualunque e senza qualità peculiari che si ripete costantemente in infiniti duplicati.

In questa massa, fatta di bipedi che tendono tutti alla non-differenziazione, tutto sembra coincidere o sfalsare di poco e desideri, idee, costumi, paure, gusti, voglie, sembrano anch'essi emergere indifferentemente.

La psicologia di quest'Uomo che riempie il mondo è quella di un essere viziato e coccolato dalla società che lo contiene. I suoi desideri sembrano non avere freni né limitazioni di alcun genere e tutto sembra che gli sia permesso e a nulla sembra sia obbligato.

E' un Uomo che non conosce i suoi confini, chiuso in un mondo di -apparente- illimitato benessere, in una società che ogni giorno sembra lottare per evitare ai suoi individui pressioni e conflitti, mentre cresce vorace un individualismo assoluto dove ognuno crede di esistere per sé e che nessuno gli sia superiore. E, tuttavia, più cresce questa sensazione -seppur inconscia- di essere una sorta di Dio in terra, più egli, evirato dagli strumenti culturali per controllare e gestire questo senso di onnipotenza, ha bisogno di sentirsi "come tutto il mondo", come tutti gli altri, poiché è l'unico antidoto che gli rimane per contrapporsi alla pazzia della divinità autoreferenziale.

E' allora che getta a capofitto nel consumo, in un'orgia di merci in cui la massa impone le sue aspirazioni e i suoi gusti, i suoi pensieri, le sue opinioni. Perché la schizofrenia del sistema esige questa doppia valenza esistenziale: sentirsi divini e onnipotenti, ma essere (al contempo) come tutto il mondo, pensare come tutti gli altri, essere trasformato in massa o emarginato, partecipare alla logica del consumo o essere eliminato.

Determinante al successo della logica del consumo e alla sua ascesa a nuovo Dio e nuova legge è senza ombra di dubbio la pubblicità senza la quale, con tutta probabilità, il sistema capitalistico non sarebbe potuto sopravvivere al corso dei secoli.

La propaganda commerciale in verità protegge il sistema stesso che l'ha generata secondo una precisa funzione. Essa incita al consumo e trasforma il consumo in sublimazione alleviando le frustrazioni derivanti dall'impossibilità e dalla incapacità di ribellarsi o semplicemente di levare la propria voce al di sopra del brusio ignorato della massa. La massa, afflitta e disillusa dall'alienazione della vita contemporanea, si rifugia nell'acquisto di beni per lo più inutili ma indispensabili, quali espediente di gratificazione, per sanare la propria insoddisfazione. Contemporaneamente l'effetto pubblicitario trasforma il prodotto in droga di modo che ogni acquisto produca insieme euforia e asservimento, spingendo ogni volta a un nuovo acquisto.

Questo sistema persuasivo si fonda principalmente sul bisogno centrale dell'Uomo contemporaneo di essere riconosciuto come vivo e gli offre nell'acquisto di una merce la possibilità di fare propri elementi distintivi altrimenti non acquisibili, come: salute, benessere, successo, bellezza, rispetto sociale, potere, etc. In una parola potremmo affermare che la funzione di attrazione fondamentale della pubblicità è data dalla capacità di far sognare il suo fruitore, o meglio: di dargli l'illusione che attraverso quel prodotto la sua vita sia destinata a migliorare. Capacità un tempo riservata all'opera d'arte e ora dominio della propaganda commerciale.

Non a caso la pubblicità utilizza mezzi espressivi, linguaggi e strategie d'approccio tipiche dell'opera d'arte sostituendo, alla naturale capacità analitica del creatore, una rigorosa analisi scientifica cui affianca, dal punto di vista creativo, quella parte dell'opera d'arte che chiama al sogno e alla magia. La pubblicità dunque, a differenza dell'arte o di quel concetto di arte pura e scevra dai nefasti condizionamenti dei mercati e del sistema che li guida, non crea nuovi valori né produce nuovi atteggiamenti, ma fonda la sua efficacia proprio sfruttando e promuovendo all'infinito valori esistenti e atteggiamenti diffusi: si tratta, come l'arte, di una vera e propria fabbrica di desideri. Ma mentre l'arte produce ed esaurisce in sé i sogni che fa vivere lasciando al fruitore patrimoni di consapevolezze e conoscenze destinati a trasformarsi in biografia, cioè in dati ed esperienze acquisite proprio come se fossero stati realmente vissuti; la pubblicità si limita a promettere quei sogni e pone come vincolo alla loro realizzazione l'acquisto di un prodotto che non racchiude in sé nessuna taumaturgia se non quelle creata "ad arte" dalla pubblicità.

Si tratta di un circolo vizioso che non porta da nessuna parte, che non dà al patrimonio spirituale del consumatore niente di più di ciò che egli già aveva, ma che rinnova continuamente le sue promesse istillando da una parte la necessità di nuovi bisogni e associando al loro consumo desideri umani con i quali essi non hanno nessun reale rapporto. Cosi facendo il consumatore non acquista nei fatti né il prodotto né le sue magiche promesse, ma semplicemente la possibilità di continuare a sognare.

Nell'esercitare questo potere persuasivo la pubblicità utilizza specifici linguaggi e modelli sociologici e psicologici che hanno come comun denominatore l'obiettivo di rivolgersi (almeno per ciò che riguarda la gran parte dei prodotti) al numero più alto di persone possibili; e ciò sta a determinare la povertà intellettuale della comunicazione commerciale e l'esigenza di fondarsi su dati ed esperienze da tutti riconosciuti e riconoscibili.

L'uso dei soggetti e degli oggetti pubblicitari, ad esempio, difficilmente potrà proporsi in una veste che esca dai canoni estetici e morali consolidati, poiché la sua cifra finale è quella della comprensibilità generale. Una comprensibilità capace di rassicurare e non di spaventare, di adulare e ossequiare, di far percepire all'individuo-consumatore che egli è unico e irripetibile e che il prodotto è il genio della sua lampada pronto ad esaudire i suoi più inconsci desideri.

Per questo la comunicazione pubblicitaria si fonda su stereotipi adatti a promuovere in ugual misura e con la stessa efficacia il preservativo e la merendina nutriente, poiché il problema non è il prodotto ma il suo essere contestualizzato in un clima di felice ed euforica "normalità" in cui il consumatore si senta magicamente rappresentato all'interno di un mondo per nulla diverso dal nostro, ma dove ogni suo problema, ogni sua angoscia, ogni suo desiderio può essere risolto semplicemente acquistando un prodotto. In altri termini potremmo dire che la pubblicità, e la pubblicità moderna soprattutto, non costruisce la sua forza persuasiva sulle valenze qualitative del prodotto, ma sulla capacità di trasportare il consumatore in un mondo di magico realismo in cui il prodotto costituisce il terminale necessario per esaudire il transfer dalla favola alla realtà.

Tutto l'universo dei linguaggi, degli oggetti e dei soggetti antropologici che collaborano alla realizzazione del messaggio pubblicitario ha di fatto questo scopo: designare, rassicurare, ossequiare, adulare e non significare nulla, non essere portatori di nessun segnale che vada oltre la magica rappresentazione di se stessi.

In realtà, quindi, l'annuncio pubblicitario non riguarda le caratteristiche del prodotto, non più almeno. Riguarda bensì le caratteristiche dei possibili consumatori di quel prodotto, immagini e slogan che non parlano affatto del prodotto vendibile, ma dicono tutto sulle paure, i sogni, le fantasie sei suoi presumibili consumatori. In questo modo l'equilibrio si sposta dalla ricerca sul prodotto, alla ricerca sul mercato; il che significa che l'industria non è più orientata verso la produzione di prodotti di valore, ma verso la valorizzazione dei loro possibili consumatori.

La pubblicità diventa così una brutta copia della psicoterapia e i suoi consumatori frenetici pazienti rassicurati dai frenetici psicodrammi che, invece di curare, divorano la psiche dell'Uomo.

Ciò detto, soprattutto se pensato nei termini dell'intera valanga di messaggi pubblicitari e del loro ridondante e rumoroso proporsi quotidianamente, ha finito con l'incidere in maniera devastante sulle società trasformando i suoi stessi individui in soggetti pubblicitari, cioè in perfetti consumatori completamente estranei a quella nozione di "consumatore sovrano" che buona parte della cultura capitalista aveva, con forse troppo facile ottimismo, pronosticato: ovvero un consumatore idoneo e preparato ad un uso mirato e consapevole delle crescenti possibilità di acquisto e delle disponibilità di beni.

Viceversa è successo che, a forza di applicare valori aggiunti (salute, bellezza, potere, etc.) al prodotto, non solo il consumatore ha finito col comprare solo quei valori aggiunti, ma anche il prodotto (in cui forse si poteva riscontrare un qualche valore culturale e un principio di scelta) è scomparso sotto il peso di quei valori. Tanto che oggi i messaggi pubblicitari altro non sono, nella loro gran parte, che comunicazioni di puro contatto, piccoli espedienti che si limitano a dire "Ci sono anch'io", spesso soprassedendo alla stessa presenza del prodotto; mondi virtuali che, nel loro caotico insieme, non orientano più a comprare un prodotto piuttosto che un altro, ma indistintamente a comprare, in altre parole (se usciamo dal richiamo del vocabolo "comprare" e quindi dallo scambio merce denaro) ad interiorizzare valori e simboli necessari al funzionamento del sistema sociale di cui la pubblicità è forza motrice.

Così facendo la pubblicità ha finito per imporsi come elemento vitale del sistema immunitario del capitalismo, suo modello esemplare utile non solo a dettare le nuove regole conformiste e consumiste all'intero universo dei comportamenti e dei modelli sociali, ma anche a fagocitare quegli atteggiamenti e quei comportamenti che, pur proponendosi come antagonisti al sistema immunitario, una volta catalizzati dalla macchina della propaganda, ne escono rigenerati in un'operazione d'istituzionalizzazione socialmente legittimante che ne cancella qualsiasi qualità propositiva.

Il riflesso di questa imposizione culturale, di questo modello strettamente funzionale alla logica della mercificazione, ha dunque finito per generare, nel tempo, vaste aree di interessato e/o interiorizzato e/o qualunquistico adattamento che si è allargato a dismisura fino a comprendere tutte le aree dei codici comportamentali della vita sociale nel suo complesso e con essi un nuovo tipo di Homo segnato da un desiderio di potenza che non ha scopo né confini e che, quindi, per continuare a esistere, non può che essere rinnovato all'infinito [...].



Massimo Silvano Galli

Homo consumens  

da: Making reality -saggio (1999) di Massimo Silvano Galli
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