Nell’aprile del 2001 fui contattato dall’ASL Provincia di Varese con la richiesta di ideare un percorso in grado di “favorire il dialogo tra adulti e adolescenti”, con particolare riferimento ad alcune famiglie che erano entrate in contatto con i servizi sociali di quel territorio.

È possibile dividere le famiglie coinvolte in due sostanziali tipologie: quelle che avevano deciso di rivolgersi motuproprio ai servizi, a seguito di atteggiamenti o manifestazioni “preoccupanti” dei figli; e quelle invitate da altre agenzie -principalmente la scuola, ma anche i centri di aggregazione giovanile e l’oratorio parrocchiale. Entrambe di fronte a quelle difficoltà che tradizionalmente emergono con la necessità di gestire le richieste di indipendenza dell'adolescente; richieste spesso accompagnate da continui atti di disobbedienza, mediamente letti come mancanza di rispetto verso quei ruoli che, seppur retaggio della famiglia di un tempo, ancora alimentano di miti educativi la famiglia contemporanea e il cui declino sta generando conflitti non dissimili da “[…] quelli che hanno caratterizzato le relazioni tra uomini e donne, quando queste ultime hanno insistito sul loro diritto di essere trattate con uguale rispetto” (Juul, 2001, p.146).

Si trattava, in ogni modo, di famiglie normali, diremmo, nel senso di estranee a quelle categorie patologiche che le istituzioni sono solite attribuire prima di procedere alla presa in carico. Famiglie che, nella loro normalità, testimoniavano, tuttavia, l’estesa trasformazione cui è soggetta la famiglia contemporanea, con ridefinizioni che si rivelano anche sul fronte della percezione e della pre-occupazione rispetto a fenomenologie classificate come problematiche e ormai diffuse nel linguaggio e nelle paure comuni. Famiglie, dunque, davvero rappresentative dello stato delle cose, anche nella varietà statistica del sistema di relazioni che palesavano: alcune gerarchiche, altre paritarie; la gran parte in bilico tra la facilità della deriva gerarchica e la fatica dell’impegno paritario; altre gerarchiche su un piano e paritarie su un altro, quasi tutte -comunque, fortemente centrate sui figli, al punto da vivere con toni drammatici la "sindrome del nido vuoto" (Formenti, 2000, p.34). Un panorama, insomma, che sembrava confermare (se non altro per quel che concerne l’occidente) la transizione cui accennavamo, dove convivono differenti stili educativi. Famiglie che, comunque, anticipando la richiesta di aiuto prima della manifestazione concreta di una reale problematica, aprivano alla possibilità di lavorare davvero in direzione di quella prevenzione troppo spesso costretta a sovvertire la sua etimologica coniugazione temporale, per intervenire su situazioni in cui molto è già accaduto e rimane ben poco da pre-venire -secondo la logica cieca di una politica famigliare che, nel nostro paese, si attiva solo laddove “[…] la famiglia è individuata come «inadeguata», «deficitaria», «patologica» […]” -appunto- mentre “[…] la famiglia sana e ben funzionante diventa invisibile” (Formenti, 2000, p.107).

Il target di riferimento era rappresentato, quindi, in prima istanza, da un mondo adulto non patologizzato. L’adolescente, terzo elemento della triade famigliare, ci arriverà successivamente, invitato dai genitori, in quanto unità che, anche laddove il disagio sussiste, spesso fatica a verbalizzarlo, se non nella parafrasi del sintomo.

Il primo incontro avviene, dunque, con una dozzina di famiglie formate dalla sola componente genitoriale. Sono questi, infatti, che oggi sembrano vivere più drammaticamente la difficoltà di tratteggiare e soppesare un’adolescenza sempre più sfuggevole che, pur mantenendo di fondo gli stessi disagi di sempre, pare non più facilmente identificabile e talmente estesa e delocalizzata da risultare, in molti casi, incomprensibile, inafferrabile.

È possibile condensare le difficoltà che questi adulti riportarono, attorno ad alcune percezioni e ad alcuni vissuti ricorrenti: “Ci sembra di non conoscere davvero i nostri ragazzi”; “Non riusciamo ad ascoltarli perché non riconosciamo le loro modalità espressive”; “Non riusciamo davvero a farci capire”; etc. Il secondo incontro esplorativo, avviene invece con i ragazzi: figlie e figli di questi genitori; ma il panorama, per quanto meno lineare e ansiogeno, non muta nei suoi contorni. Anche i ragazzi lamentavano un'assenza di comunicazione, una mancanza di ascolto, di strumenti e «parole per dirlo» (Formenti, 2000, p.73).

Le istanze di entrambi i poli in questione, sembravano dunque registrare una diffusa sensazione d'inadeguatezza, giocata prevalentemente sull’asse della comunicazione, come se davvero non ci si riuscisse a capire, non solo in quanto parlanti un altro linguaggio, ma anche perché agenti un altro linguaggio.

Dall’incontro con le famiglie parve, dunque, emergere lo stereotipo che solito affligge il rapporto genitore/adolescente: la difficoltà a comunicare, l’incomprensione. E’, difatti, opinione diffusa, anzi: tanto generalizzata da sagomarsi a clichè, che allo scoccare della pubertà inizi, tra genitori e figli, forse il periodo più difficile della loro relazione; periodo caratterizzato da molteplici accadimenti, ma sul quale capeggia proprio questa difficoltà a capirsi che facilmente si trasforma in conflitto. Anche se, come ci ricorda Juul: “[…] l'idea che lo sviluppo di per sé debba essere causa di un conflitto interpersonale con gli adulti è totalmente infondata” (Juul, 2001, p.18), frutto di un determinazione culturale che, ad esempio, non è contemplata da altre società pedagogicamente segnate dal principio di non-intromissione nell’autonomia dell’adolescente e, in molti casi, addirittura del bambino (Rogoff, 2004, pp.209-212). Nelle cosiddette società avanzate "i conflitti cominciano a sorgere proprio quando la nostra responsabilità di genitori inizia ad entrare in competizione, o addirittura a prevaricare quella personale dei figli” (Juul, 2001 p.136) nel tentativo di controllarli, sospinti dalla ansia/paura che diventino qualcosa di diverso da come li vorremmo. Invece, in molte società tradizionali, il minore si ritiene che nasca già con una sua storia, con una sua personalità ben definita, con una sua precisa volontà. “Questo spiega perché [ad esempio] la pedagogia africana tradizionale sia in realtà un’ars maieutica, un'arte di far nascere, di tirar fuori la ricchezza che è già insita nel bambino. Non si tratta quindi di modellarlo a nostra immagine, ma di accoglierlo, di capire chi è, di rispondere ai sui bisogni e ai suoi desideri" (AA.VV. 2002, p.110).

Spesso si parla dell’adolescenza come di una seconda nascita. Una seconda opportunità data ai ragazzi di sapere chi sono e di diventare se stessi, in cui “i conflitti nascono anzitutto perché i genitori non vogliono o non sanno confrontarsi con la persona unica e indipendente che sta diventando loro figlio” (Juul, 2001, p.160). Ma allora, l’adolescenza, potrebbe diventare anche una seconda nascita per i genitori; può diventare l’occasione di esercitare quell’ars maieutica tesa a liberare il sé autentico insito in ogni Uomo: la possibilità di aprirsi ad universo nuovo e sconosciuto con cui confrontarsi, una nuova occasione di cura non scissa dalla “[…] ricerca di sé, del senso della propria esistenza nella sua instancabile costruzione” (Palmieri, 2000, p.33).

Il rischio sempre presente nelle relazioni educative è “[…] quello di occuparsi dell'altro vedendone solo il bisogno di cure, prevenendo ogni sua richiesta, decidendo per lui. L'aver cura in cui si «sostituisce dominando» sembra ben evocare la forma di una relazione educativa che rende il destinatario della cura oggetto di essa, senza concedere il minimo spazio alla sua capacità intenzionale, espressiva, al suo desiderio, al suo poter essere. Ma si può avere cura dell'altro senza sostituirsi a lui, anzi facendo sì che l'altro, di cui si presuppone la possibilità di essere se stesso, sia appropri della sua Cura, del suo possibile prendersi cura del mondo ed aver cura degli altri. In questo caso l'aver cura è autentico: è un «anticipare liberando» […]” (Eadem, p.27). Un compito difficile, dato il retroterra culturale che domina gran parte della pratiche e delle visioni dei genitori odierni, la cui idea di cura è quasi sempre rappresentata nella sua apparente unilateralità: quella dell’adulto che insegue l’adolescente; anche se, come dimostra l’esempio delle “famiglie di SpeaKit”, spesso coinvolge entrambi nello stesso identico disagio: con l’adulto impegnato a “cercare un dialogo”, senza conoscere e riconoscere davvero la lingua dell’altro, e un adolescente che sembra evitarlo, ma più per la difficoltà a “farsi capire”, per la percezione di non essere davvero ascoltato, che per la reale volontà di fuggire.

A partire dall’emersione di queste raffigurazioni si profilò, così, l’intuizione, di ridisegnare adulto e adolescente, non come due categorie della crescita umana, ma come due parlanti di lingue diverse, estranei nell’estraneità dei loro codici di intesa. L’ipotesi di lavoro era che, ridefiniti secondo questo principio, adulto e adolescente, proprio come due individui di lingua e cultura diversa, non solo potessero trovare, nella metafora, un senso alla loro incomprensione, ma intuissero anche che, per intendersi, avrebbero dovuto sviluppare un vocabolario e una grammatica comune, attraverso quel percorso di conoscenza e approfondimento che non può che vedere l’adulto (frutto di un’adolescenza trascorsa) compiere lo sforzo di conoscere e comprendere il linguaggio dell’adolescenza, ma che -non di meno- dispensa l’adolescente dalla fatica di entrare nei meandri dei linguaggi dell’adultità, seguendo per altro il processo di crescita che gli è naturale.

La proposta fatta ai genitori e ai loro figli, fu dunque quella di provare a lavorare, insieme, alla costruzione di un kit di autoformazione e autoistruzione che, simulando le unit dei corsi di lingue a dispense, fosse in grado di insegnare (mostrare) all’altro le basi della propria lingua, attraverso esemplificazioni, narrazioni e esercizi, capaci di aprire uno squarcio e provare a svelare i modi, le espressioni, le esperienze, i saperi di cui sia i genitori che i figli sono portatori.

Non si trattava di insegnare a scimmiottare un gergo o a mandare a memoria il vocabolario slang dell’adolescenza contemporanea, bensì di instillare un processo di condivisione e di cooperazione: con le generazioni più adulte impegnate a “[…] garantire il passaggio del lessico famigliare, dell'identità e dei valori condivisi attraverso la memoria collettiva, il racconto di ciò che si è stati, di ciò che si è costruito, capito, provato nella vita” (Formenti, 2000, p.73); e le nuove generazioni ad offrire il loro aiuto nel “[…] mantenere alta in ogni momento l'attenzione per il tempo che verrà, la curiosità per l'ambiente, l'apertura al nuovo […] la disponibilità a riprogettarsi continuamente” (Eadem).

Analogamente ad altri gruppi che hanno la funzione di favorire lo sviluppo umano, anche l'unità padre-madre-figlio “[…] è composta da due subunità principali: la subunità strutturante (rappresentata dalla componente coparentale) e la subunità evolutiva (il bambino). La funzione della componente strutturante è di facilitare e guidare lo sviluppo del bambino, mentre la funzione della componente evolutiva è di crescere, di incrementare la propria autonomia e, quindi, di dare impulso alla subunità strutturante. Solamente tramite la cooperazione, tuttavia, le due componenti possono costituire un'alleanza, che a sua volta permette di realizzare tali funzioni" (Fivaz Depeursinge, Corboz-Warnery, 2000, p.10). Un percorso, insomma, lungo il quale adolescenti e adulti fossero messi nelle migliori condizione per guidarsi, “step by step”, alla scoperta di quelle visioni, quei riti, quei dubbi, ma anche quei tic e quelle ossessioni che caratterizzano la loro quotidianità e che spesso vengono fraintesi, traditi dalla traduzione nel codice altrui, senza che di questo tradimento, per altro indispensabile, vi sia la necessaria consapevolezza e volontà di comprenderlo; anzitutto investendo il linguaggio dell’Altro di quella dignità paritetica nella cui sfera ognuno deve sentirsi pensato per dare abbrivio a qualsiasi sana cooperazione.

La proposta fu accettata da nove famiglie su dodici. Nacque così il progetto SpeaKit.

Avviato, dunque, con l’obiettivo di “favorire il dialogo tra alcune famiglie con figli adolescenti”, i risultati cui SpeaKit è approdato sono tuttavia da registare ben al di là di ogni più rosea previsione. Gli squarci di riflessione, di rielaborazione, di condivisione, nonché le consapevolezze che i partecipanti hanno saputo generare e comunicare, sono il segno dell’efficacia di questa metafora tra linguaggi che ci siamo inventati stranieri -di fatto, all'inizio, poco più di un'intuizione che è andata via via prendendo corpo proprio attraverso il lavoro in progress con il gruppo. Un percorso di autoformazione che ha portato alla luce elementi spesso inusitati e, a volte, vere e proprie illuminazioni (di quella ovvietà "invisibile" proprio perché tanto evidente), di cui è testimone un elaborato finale, la unit dal titolo: “L’adolescente in casa”, pubblicata e distribuita dall’ASL della Provincia di Varese e, a tutt’oggi, utilizzata dalla stessa in percorsi di formazione alla genitorialità.

Il percorso ha dunque coinvolto nove famiglie, formate da entrambi i genitori e un figlio adolescente, che hanno partecipato a differenti momenti di lavoro divisi in tre moduli di dieci incontri ciascuno, della durata di circa tre ore. Un primo modulo prevedeva un percorso con il solo gruppo dei ragazzi, un secondo modulo con il solo gruppo dei genitori e un ultimo modulo con entrambi i gruppi in plenaria. Ogni modulo si presentava a cadenza settimanale alternata, affinché l’emersione di ogni vissuto e di ogni possibile nodo e snodo diventasse, nella settimana successiva, materia di rielaborazione per il gruppo entrante. Ogni gruppo è stato così stimolato e accompagnato a circumnavigare i diversi e molteplici aspetti che animano (oggi) l’incontro, il dialogo, la relazione tra un giovane e i suoi principali educatori di riferimento. Racconti, drammatizzazioni, giochi, sperimentazioni, provocazioni, in cui tutti si sono cimentati, focalizzando l’attenzione sul piano della comunicazione e delle modalità nelle quali questa si genera e si esprime. Attività che hanno posto continuamente al centro di ogni operatività l’utilizzo dell’espressione autobiografica, esercitata anche attraverso la rivelazione di quella biografia in potenza che si cela nella finzione e che costituisce un naturale air-bag capace di aumentare, dietro la maschera dell’alterità, il senso di sicurezza, favorendo così la messa in gioco e l’articolazione di ogni possibile sé: l’opportunità, per ogni partecipante “[…] di poter essere ciò che egli è, e non altro, a partire dalla propria effettività. [In quanto] la possibilità esistenziale è possibilità formativa, autoformativa: ha a che fare con la costruzione di sé, con la capacità di relazionarsi a sé e al mondo conferendo senso a sé e al mondo, dando forma al mondo e contemporaneamente dandosi forma. Una forma sempre mutevole, di per sé comunque possibile, aperta a nuovi orizzonti, a nuove esperienze" (Palmieri, 2000, p.13). Un processo che trova il suo centro ermeneutico nella complessità e nella ricchezza dei mondi inaspettati che è capace di suscitare, universi cui sono legate indissolubilmente quelle dimensioni esistenziali, percettive, rappresentative, culturali, linguistiche che, emergendo in situazione, permettono una elaborazione pedagogica non solo delle possibili problematiche sottese, ma anche e soprattutto delle possibili e infinite risorse disponibili. Uno spazio in cui è data la possibilità di dire e di dire in profondità, di aprire quell’anfratto intimo e non alienato che spesso è negato dalla pragmatica della vita quotidiana. Un dire che utilizza tutte le possibilità espressive e che, provocato ad uscire dal linguaggio ordinario e ordinato, si propaga con uno sviluppo ramificato di cui la complessità e la metamorfosi costituiscono la natura scompensante, lo iato che, posto al vaglio del raziocinio, darà adito, poi, alla comprensione e alla ridefinizione dei codici emersi.

In tutte le situazioni proposte si è sempre cercato di fare affiorare le variegate e molteplici modalità di leggere il contesto familiare: come sistema dove “[…] è data grande rilevanza ai processi linguistici autoreferenziali, attraverso il quale la famiglia si costituisce come realtà per i suoi membri […]” (Formenti, 2000, p.48); prestando altresì “[…] attenzione alla natura e alla storia delle relazioni e delle interconnessioni che possono influenzare i modelli di stabilità/cambiamento […]” (Ibidem); ma anche cercando di comprendere “[…] le opposizioni generative che strutturano la realtà famigliare […]” (Eadem, p.49), le polarità semantiche che definiscono i discorsi e segnano la storia di ogni famiglia. Si è trattato di interconnettere uno sguardo “[…] aperto alla ricerca, attento alla propria autoreferenzialità, continuamente disposto a interrogarsi […]” (Formenti, 2000, p.19), con uno sguardo ingenuo, “[…] culturalmente e ideologicamente centrato, connesso alle esperienze di vita dell'osservatore […] inesorabilmente soggettivo” (Ibidem) -e non per forza da attribuirsi rigidamente al conduttore il primo e alle componenti famigliari il secondo, e nemmeno da ritenersi uno portatore di verità e l’altro falsificante della realtà; bensì due sguardi parimenti meritevoli della dignità dell’ascolto e della riflessione e, comunque, due sguardi che, a torto o a ragione, finiscono per determinare i contesti su cui si posano e, quindi, da tenere entrambi in seria considerazione.

Compito del conduttore, in questo setting dove ha preminenza la narrazione, è stato quello di rifiutare in modo radicale “i significati nascosti, le strutture sottostanti a ciò che viene narrato, le varie tipologie create dalla psicologia, della psichiatria (le diagnosi) e da altri modelli […] inclusi i concetti di norma e patologia, adottando una posizione di «non sapere» in cui il solo compito è quello di tenere aperta la conversazione” (Boscolo, Bertrando, 1997, p.23 cit. in: Formenti, 2000, p.72).

In un contesto dove storicamente il potere dell’adulto di significare la realtà ha sempre avuto la preminenza, con famiglie che spesso commettono l'errore fondamentale di ritenere i figli non come persone vere e proprie fin dalla nascita ma, al massimo, individui “in potenza” (Juul, 2001, pp.8-9), è parsa anche di fondamentale importanza la reiterata riconduzione del gruppo ad una sorta di relativismo radicale,privilegiando non solo un’idea di famiglia come cultura (con il suo “[…] sistema di credenze, di schemi d’azione e routines, rituali e miti che la identificano come una società particolare e unica, distinguibile da altre” -Formenti, 2000, p.54), ma finanche un’idea di individuo come soggetto unico e irripetibile, il cui punto di vista è uno tra i tanti, e non necessariamente il più giusto, bensì legato alla propria esperienza culturale (Rogoff, 2004, p.22), compresa quell’esperienza irrimediabilmente soggettiva che è il corpo di chi osserva, comunque connesso alla propria storia individuale e a quella dell’umanità in genere, nonché alle determinazioni sociali e culturali e alle relazioni intersoggettive che si sviluppano nei molteplici contesti dell’apprendimento, in un intrecciarsi di opzioni evolutive di irriducibile complessità (Morelli, Weber, 1996).

Per questo è sembrato necessario promuovere continuamente occasioni di dialogo e confronto tra chi osservava da una prospettiva interna e chi esterna: i primi in grado di dare un certo numero di significati attendibili agli eventi, i secondi per sottolineare quelle situazioni che l'abitudine del quotidiano ha reso non più percettibili, relativizzando altresì quelle verità che paiono assolute (Rogoff, 2004, pp.22-27).

Il lavoro si è quindi articolato lungo il progressivo sviluppo di un "discorso" che ha continuamente sollecitato la partecipazione attiva di ogni partecipante nei sui differenti ruoli: componenti individuali invitati a giocare alla messa in scena di se stessi e dell’Altro, unità famigliari stimolate a rappresentarsi, coppie sollecitate alla drammatizzazione. Tutti coinvolti in uno spettacolo che li ha visti sempre protagonisti e padroni di una scena continuamente ritrasformata dall’investimento creativo ed espressivo, in un costante aprirsi di passaggi e paesaggi di senso, capaci di svelare inusitati particolari e nascoste sfumature delle relazioni in oggetto, chiamando direttamente in causa gli immaginari che ognuno mette in atto nel continuo confronto tra quel possibile e quel reale contesi tra il più comune quotidiano (finanche banalizzato) e il paradosso.

Le provocazioni, le stimolazioni, le interrogazioni che hanno attraversato il percorso di SpeaKit hanno così permesso di generare quel benevolo “[…] incontro/scontro tra le immagini latenti […] e l’immagine di sé portata dai diversi membri di una data famiglia […] terreno di partenza per qualsiasi iniziativa di educazione famigliare” (Formenti, 2000, p.63). Tra le immagini celebrate, ogni famiglia e ogni attore nella famiglia, ha potuto così riconoscersi in una o nell’altra rappresentazione, con il conduttore impegnato a sfidare continuamente ogni preferenza, non per annichilirla, ma per dare altrettanto rilievo ad altre possibili immagini, magari solo più nascoste, o solo più difficilmente narrabili (Eadem, p.60). “La differenza tra un processo di cambiamento spontaneo e uno indotto [sta proprio in quella riflessività su cui SpeaKit si è giocato gran parte della propria avventura, cercando di stimolare ogni partecipante] a porsi domande sul proprio mondo culturale, a diventare consapevole dei propri modelli familiari e del modo in cui influenzano la loro vita [...]” (Eadem, p.59).

Un’altra dimensione importante, che il conduttore ha cercato di richiamare, invitando i partecipanti ad una più vigile osservazione, è data dalla complessità delle interazioni non verbali, in quanto, "[…] diversamente da come avviene nella comunicazione verbale in cui i soggetti alternano il proprio turno mentre parlano, la comunicazione non verbale ci obbliga a prendere in considerazione espressioni simultanee, come avviene nella musica" (Fivaz Depeursinge, Corboz-Warnery, 2000, p.24), a tener conto di quell’insieme spesso ignorato ma altrettanto denso di significati.

Così, inscenando le molteplici consuetudini del vivere in famiglia, “[…] conversando, mettendo a fuoco le relazioni concrete e i significati che ciascuno attribuisce ad esse, ricostruendo attraverso la narrazione la storia famigliare […]” (Formenti, 2000, p.168), interrogandosi continuamente sulle proprie rappresentazioni e su quelli altrui, si sono, di fatto, spontaneamente palesate nuove possibilità di esistenza e di relazione (Ibidem).

Tanto dalla qualità delle situazioni evocate in ognuno di questi contesti, quanto dalla densità delle restituzioni, è emerso l’elemento della potenza elaborativa del dispositivo simbolico, narrativo e creativo da cui è scaturita la possibilità di tematizzare ed elaborare vissuti e rappresentazioni che toccano da vicino la dimensione esistenziale quotidiana e concreta dei partecipanti. Raccontarsi, sia pure attraverso la mediazione finzionale di una situazione più o meno manipolata o di una storia fantasticata ha, di fatto, costituito la possibilità di una legittimazione individuale, la possibilità di dare voce alle paure e alle angosce, alle speranze e ai sogni, che albergano nell’intima esistenza materiale di ognuno, immersi in un clima che ha saputo toccare veri momenti di tensione, commozione e puro divertimento.

I partecipanti, che hanno contribuito alla realizzazione di SpeaKit, hanno parlato di sé, imparando a trasformarsi nel momento stesso in cui si raccontavano: ritagliando e ricomponendo la propria immagine attraverso le molteplici possibilità del collage drammaturgico, della produzione di maschere, evocando vicende dolorose o comiche, assurde o improbabili, affetti importanti, situazioni trovate o perdute, attraversamenti compiuti o solo sognati.

Su tutti questi aspetti ha, infine, capeggiato anche l'elemento della comunicazione con l’esterno, ossia la consapevolezza di stare collaborando alla finalizzazione di un strumento che sarebbe stato distribuito ad altri genitori e ad altri figli, e che quindi avrebbe dovuto non solo manifestarsi a un Altro sconosciuto, ma anche presentarsi come credibile e comprensibile, cosa che ha impegnato ognuno nello sforzo di uscire dal cortocircuito dell’autoreferenzialità, addentrandosi negli anfratti della metacomunicazione.

Si è così definito un setting che, in un mix tra peer-education e lavoro di auto-aiuto, ha stimolato e invitato a continui momenti di osservazione, riflessione e discussione. che hanno dato a ciascuno l’opportunità di condividere le esperienze e di aiutarsi, mostrando implicitamente, l’uno all’altro, non solo come affrontare i problemi comuni, ma anche quanto e come quei problemi fossero davvero comuni.

All’interno del gruppo, ciascun sforzo individuale teso alla risoluzione di un proprio problema, si è così trasformato nello sforzo per risolvere un problema comune, nella condivisione di quello «spazio abitabile» in cui si dà la cura educativa: facendo esperienza dell'altro e insieme di sé, e retrocedendo “[…] da posizioni ideologiche, irreali e in fondo narcisistiche che vedono in un'incondizionata accettazione dell'altro il primo passo verso la reciprocità" (Palmieri, 2001, p.96).

Come ci ricorda Barbara Rogoff citando Dewey: "vi è un legame più che verbale fra le parole comune, comunità e comunicazione. Gli uomini vivono in comunità in virtù delle cose che possiedono in comune. E la comunicazione e il modo con cui sono giunti a possedere delle cose in comune" (Rogoff, 2004, p.77).

SpeaKit è stato un po’ questo tentativo di passare da una ricondivisione dei segni e dei segnali della comunicazione in seno ad un “gruppo di famiglie con adolescente”, ad una riappropriazione autentica di quel senso spesso sfuggente che accompagna ogni nostro comunicare: quel mettere in comune ad altri sotteso ma spesso eluso, quel darsi che “[…] richiede ben più che parlare […] in modo democratico […]” (Juul, 2000, p.11), condividendo un’etica del riconoscimento che si esplica nell’impegno a mettere noi stessi nelle risposte che offriamo e a non eludere il riconoscimento del altrui e della propria umanità. (Sparti, 2003).

Una strana e salvifica combinazione per cui chi dà aiuto in realtà ne riceve, “[…] come se in qualche modo nella cura dell’altro fosse implicitamente presente il modo di aver cura di sé […]” (Palmieri, 2000, p.28),e chi si prende cura dell’Altro cercando di spiegare il proprio mondo, in realtà lavora ad una maggiore comprensione e definizione di sé, “[…] come se nell'azione formativa di chi ha cura di altri non solo si rispecchiasse ma si facesse la propria formazione […]" (Ibidem).

 

 Bibliografia

AA.VV (2002), Mille modi di crescere. Bambini immigrati e modi di cura, FrancoAngeli, Milano.
L. Boscolo, P. Bertrando (1997), Terapia sistemica e linguaggio, in “Connessioni”, n.1.
E. Fivaz Depeursinge, A. Corboz-Warnery (2000), Il triangolo primario. Le prime interazioni triadiche tra padre, madre e bambino, Raffaello Cortina Editore, Milano.
L. Formenti(2000), Pedagogia della famiglia, Guerini e Associati, Milano.
J. Juul (2001), Il bambino è competente. Valori e conoscenze in famiglia, Feltrinelli, Milano.
U. Morelli, C. Weber (1996), Passione e apprendimento, Raffaello Cortina editore, Milano.
C. Palmieri (2000), La cura educativa. Riflessioni ed esperienze tra le pieghe dell’educare, Franco Angeli, Milano.
Barbara Rogoff (2004), La natura culturale dello sviluppo, Raffaello Cortina Editore, Milano.
R.M. Scognamiglio (2005), L’adolescente e l’ingombro del corpo, in P. Barone, Traiettorie impercettibili. Rappresentazioni dell’adolescenza e itinerari di prevenzione, Guerini e Associati, 2005, Milano.
D. Sparti (2003), L’importanza di essere umani, Feltrinelli, Milano.
V. Ugazio (1998), Storie permesse e storie proibite, Bollati Boringhieri, Torino.
G. Vattimo (2001), in: H.G. Gadamer, Verità e metodo, Bombiani, Milano.

 

Massimo Silvano Galli

SpeaKit

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