1. Il Territorio

"Natura Morta con Adolescente” nasce da un’intuizione: l’idea cioè che il mondo dell’inanimato (gli oggetti, le cose che ci circondano e che agevolano e ornano la nostra esistenza) sia il ricettore e il catalizzatore di esperienze, vissuti, costruzioni e architetture emotive, in grado di fondare un mondo parallelo alla vita stessa, un mondo che ci narra e ci restituisce un’immagine apparentemente deformante ma che, a ben vedere, rappresenta una moltiplicazione focale della nostra più intima realtà.

La collezione degli oggetti costruita lungo la vita di un uomo accumula, di fatto, una schiera di testimoni in un sorta di tribunale senza giudizio che, mentre sospende frammenti delle nostre esistenze, si incarica anche di raccontarli.

Gli oggetti, insomma, parlano delle persone che li hanno costruiti, desiderati, scelti, nominati, barattati, etc. e invecchiano con loro: si trasformano, si consumano, si rompono e si riparano, proprio come gli uomini.

Un museo degli oggetti, di qualunque oggetto, è dunque un museo che parla dell’Uomo, di un’antropologia del quotidiano che, coi suoi reperti, racconta strati non solo epocali o geologici, ma fatti anche di altre profondità che, straripando dai mondi della psiche, ci narrano una storia dell’Uomo lontana, seppur legata, alla storia ufficiale. È la storia di un’immagine che dapprima si è incarnata nell’oggetto e poi dall’oggetto è ripartita per dialogare con la mente di coloro che, con quell’oggetto, si sono relazionati, producendo ulteriori immagini di sé.

Ecco, allora, che si presenta davanti ai nostri occhi un territorio vasto e possibile di indagine, un territorio indefinitamente aperto ma che, troppo spesso, è vissuto come inaccessibile. In questo territorio possiamo chiamare a raccolta, coinvolgere, un piccolo o un grande gruppo di ricercatori coi cui percorrere le traiettorie impercettibili che, come in un’avventura alla Jules Verne, ci conducano nei mondi, alla superficie imperscrutabili, degli oggetti, fino a sprofondarci negli universi che da questi si spalancano.

Sono, evidentemente, mondi che si prestano all’incontro con chiunque abbia voglia di navigare in quel sé nascosto che gli oggetti, così osservati, sono in grado di svelarci.

Ciononostante, pur non sbarrando la strada a nessun visitatore, esiste un profilo, un target privilegiato, un esploratore meglio attrezzato per intraprendere questa avventura. Questo David Livingstone è l’adolescente: collezionista e cultore di qualsiasi frammento di inanimato gli si presenti a tiro lungo il susseguirsi sempre spasmodico della sua esperienza, in quel percorso di crescita che, proprio in questo momento della vita, trova l’apice della necessità di apprendere, ossia di raccogliere tutto ciò che, consciamente o inconsciamente, contribuisce alla costruzione della propria identità.

Questo atto della raccolta dell’Altro per la scoperta e la costruzione di Sé è, però, un atto costantemente in divenire, dove ogni frammento raccolto diventa la tessera di un mosaico capace di restituirne le profondità se, e solo se, l’occhio e lo sguardo sapranno porlo sotto la luce di una poetica che apra all’immaginale.

È necessario, cioè, un dispositivo in grado di rallentare la scansione dei fotogrammi di questo perpetuo fluire esistenziale, fino a restituirci possibili fermoimmagini: veri e propri congelamenti istantanei, quelli che la lingua anglosassone chiama still e dai quali deriva la formula still life, ossia, letteralmente: vita ferma. Fermare la vita, dunque, come se fosse un film, per sottoporla, momentaneamente, allo scrutare attento e meticoloso di una specie di moviola che ci consenta di penetrare l’inanimato.

Il concetto di still life si riferisce, per quel che concerne il linguaggio fotografico, ad una precisa tipologia di immagine che ritrae esclusivamente quelle cose che Socrate, nel Fedro, definisce senza anima, proprio perché non animate da una forza interiore. Ora, il connubio di queste cose inanimate con l’adolescente, evidenzia a tutti gli effetti una specie di ossimoro. Se poi rivolgiamo il concetto di still life alla lingua italiana, come accade nel titolo di questo dispositivo, troviamo appunto quel “Natura Morta con Adolescente” in cui la figuraossimorica si palesa in tutta la sua contraddizione, ma anche in tutta la sua seduzione. Infatti, quando accostiamo all’oggetto morto la vitalità prorompente dell’adolescente, con le sue storie, con la sua immaginazione, con i suoi desideri, con i suoi ricordi, l’oggetto si carica di vitalità, gli infonde, in qualche modo, l’anima. Sempre secondo il Socrate del Fedro, un oggetto inanimato può essere animato solo dall’esterno e, proprio l’adolescente, forse più di altri, è portatore di questo potere. Difatti, quella che nell’infanzia era la capacità (forse ben più grandiosa) di animare l’inanimato, diviene in adolescenza un vero e proprio potere che fruisce di linguaggi più sofisticati per essere gestito e condiviso col mondo e con la propria auto-rielaborazione.

È proprio questo potere uno degli elementi centrali che caratterizzano il percorso “Natura Morta con Adolescente”, alla ricerca delle voci, delle storie, dei suoni, delle mille evocazioni possibili che intessono il rapporto dell’Uomo con i suoi oggetti. Si tratta, però, come ben sa chi lavora costantemente con questo target della crescita umana, di un potere spesso sopito dalla consuetudine iperaziocinante della società moderne, così prestata al consumo positivista e meccanicista delle scienze, che tutto sanno e spiegano, e delle tecnologie, che tutto fanno e promettono di fare. È necessario, quindi, uno spostamento dello sguardo, qualcosa che, per un attimo, ci inviti a guardare la realtà da un buco della serratura diverso da quello cui normalmente siamo abituati a scrutarla. Ci viene in soccorso, in questa direzione, il Grande Magazzino Degli Sguardi Inaspettati: l’arte, che con i suoi modi sempre diversi e inusitati di raccontarci la superficie delle cose, rappresenta un grandioso strumento di indagine. È, infatti, attraverso l’incontro con artisti e autori che hanno già navigato tra i flutti e i marosi di questo oceano delle cose inanimate e hanno già narrato di splendide avventure e grandiose scoperte, che il nostro ricercatore può immaginare possibili rotte in questo immagimare (L’immagimare è il mare dell’immaginazione dove tutte le navi che lo solcano e l’hanno solcato, tracciando nuove rotte e inventando persino nuove bussole, persistono in eterno, e se ne stanno lì, veleggiando nel tempo, affinché ogni navigante possa partecipare alla Grande Conversazione squassato da questi venti sempre e comunque maestrali).

L’adolescente, varato in questo mare, solca le prime onde e mentre i fiotti d’acqua inaugurano lo scafo, comincia ad orientarsi, scoprendo sestanti e bussole che, forse, non sapeva di possedere.

Si tratta -appunto- dei suoi oggetti. Oggetti simbolo, ma anche oggetti carichi di affettività e di intimità, oggetti in grado, dicevamo, di raccontare storie e di tracciare immagini, spunti di riflessione sul Sè e sul rapporto con la propria contemporaneità; oggetti, infine, come totem di possibili rappresentanze giovanili: medium capaci di ritrarre le variegate profondità dell’essere adolescente.

Tuttavia, non tutti gli oggetti si prestano a questo scopo. In mezzo a questo mare, sotto l’influenza dei venti maestrali dell’arte e delle sue sollecitazioni, l’adolescente scopre spesso che gli oggetti che la propaganda commerciale e i condizionamenti culturali impongono come fedeli compagni di viaggio, altro non sono che spurie chimere, aberrazioni che celano alla vista altre e più profonde guide di diversa fattezza. L’oggetto che sembrava più vicino, più bello, più seducente, proprio quell’oggetto si rivela invece il mero residuo di un consumo tutto volto al presente, incapace, quando messo davvero alla prova, di emanare l’energia e il desiderio della Grande Avventura che sempre cela la scoperta di Sè. Così, subito dietro l’ombra di questi oggetti consumati dall’acritico consumo, ne emergono altri e con tutta la forza che solo possiedono le cose che davvero ci appartengono e alle quali apparteniamo. Un cellulare ultimo modello può trasformarsi in un vecchio peluche, compagno, fin dalla culla, dei sogni e degli incubi che hanno nutrito le notti della prima infanzia; una playstation può misteriosamente diventare il coltellino tascabile di quella mitica estate in cui… e un paio di scarpe da tennis, sì anche quelle all’ultima moda, rivelare il passo segreto di un funerale dietro la bara di un padre precocemente perduto.

Perché, evidentemente, non è la mercificazione dell’oggetto a sminuirne il potere, ma il suo essere o meno veramente incarnato nel nostro Dna biografico. Quando ciò accade, il nostro oggetto diventa davvero un fedele compagno che si staglia come un faro lungo l’orizzonte di quel mare aperto e la nave, improvvisamente, cambia rotta e qualcuno grida: “Terra! Terra!” e così, senza più l’ingombro dell’esperienza, si può lasciarsi andare a circumnavigare la cruda materialità spiandola da sotto, da sopra, di dietro, di fianco e di fronte. Si può giocare a sfidarla, senza tema che la sconfitta faccia troppo male. Si può persino divertirsi a non essere se stessi sapendo che, comunque, è una finzione che, paradossalmente, sa di non mentire perché, quel non essere se stessi rivela, in verità, soltanto quelle parti di noi che fatichiamo ad ammettere di essere o che, per contro, vorremo essere.

È qui che i nostri oggetti, improvvisamente, mostrano la loro voce e incantano, come le sirene di Omero.

Incatenati all’albero maestro, senza quei tappi di cera nelle orecchie che ci impedivano di cogliere il canto degli oggetti in tutta la sua profondità, ci accorgiamo che quelle voci, quel narrare, sono la nostra storia: parole che hanno trovato casa.

Allora, nell’incanto, ci fermiamo ad ascoltare quella voce sconosciuta, che poi è la nostra voce; quelle storie, che sono le nostre storie ma che, così narrate, così cantate, sembrano diverse, sembrano addirittura appartenere ad un altro; tanto che ci viene da dire: “Ma sono davvero io?”. Ed è proprio nello scarto tra ciò che sono (o credo di essere) e questo nuovo personaggio, improvvisamente apparso, come il genio di Aladino, dallo strofinio del mio oggetto contro il palmo dell’immaginazione, che si apre la grande possibilità dell’Avventura.

La scoperta da parte dell’adolescente di questa parte di sé mai svelata, dopo le prime iniziali perplessità, apre immediatamente a nuove e inaspettate rotte che sanno osare, sperimentando nuove tecniche di navigazione. Ed è a questo punto che ogni partecipante entra a pieno titolo in quella Grande Conversazione che, finora, aveva visto solo da lontano, da cui finora la società l’aveva in qualche modo escluso. Quella Grande Conversazione dove gli uomini, animati dalla loro fantasia, dai loro saperi, creano nuovi mondi, nuove società, nuovi uomini.

L’itinerario che guida questo viaggio si centra, dunque, sulla dimensione della creatività e sullo stimolo all'espressione artistica quali strumenti privilegiati per proporre all’immaginario del singolo nuove visioni, spalancando la porta su paesaggi nei quali potersi leggere con nuove parole e nuovi colori. Un percorso che, evidentemente, parte dalla convinzione che arricchire il proprio lessico espressivo significa arricchire la capacità di leggere il reale, in un processo dialettico in grado di trasformare il simbolico e l’immaginazione in filtri rivelatori di visualizzazioni profonde.

L'incontro con l'espressività, con la creazione, va tuttavia accompagnato, soprattutto con molti nostri adolescenti che sembrano faticare, non solo a riconoscere questo mondo nella confusività dei segnali e dei codici contemporanei, ma soprattutto a riconoscersi come possibili autori, come possibili creatori.

Qui entra in gioco il ruolo dell’educatore, con le sue carte nautiche, le sue bussole, i suoi sestanti, i suoi mille e più strumenti che non può fare a meno di possedere se vuole davvero esercitare la sua antica mission: quella di colui che accompagna e sorregge certo ma, soprattutto, di colui che stimola, che provoca, per poi mettersi in ascolto.

Ma cosa ascolta, cosa sente, se non quel turbinio di voci che gli adolescenti, il suo gruppo di ricercatori, ha evocato e ora circolano nello spazio del loro incontro carichi di illusioni, di promesse, di desideri, di dubbi, di trappole, di chimere, di storie, di…? Avviene, cioè, che anche il conduttore si trova improvvisamente incatenato a quell’albero maestro, senza più tappi nelle orecchie, preda di tutte quelle voci. Ma qui, le sirene, che prima avevano avuto un effetto tanto benefico e stimolante, immediatamente assumono quel tragico carattere mitologico che le vuole ingannatrici: coloro che conducono al rovinoso schianto contro gli scogli.

Il conduttore, allora, deve prestare molta attenzione e deve esercitare un grande autocontrollo per non lasciarsi catturare dalla tentazione di credere che la sua storia di adolescente sia la Storia, che le sue avventure di quand’era ragazzo siano le storie che sente cantare.

Solo due, a questo punto, sono le alternative che ha a disposizione: o rifiuta totalmente quel canto melodioso e si sottrae al minaccioso ascolto, rimettendosi i tappi nelle orecchie; o lascia che anche la sua storia si faccia canto, si aggiunga alla melodia del coro.

Leggende di mare raccontano che, troppo spesso, l’educatore fatica ad abbracciare quest’ultima stimolante e proficua opportunità e, invece, si pianta i suoi bei tappi di cerca nelle orecchie, si isola dal mondo, ergendosi dietro la cattedra di tutte le sue sacrosante teorie che diventano tanto inopportune quando non riescono a dialogare con la materialità. O, peggio, crede, appunto, che le storie cantate dai suoi esploratori adolescenti siano tutte traducibili attraverso i linguaggi e i simboli della sua storia, e finisce per rovinare contro gli scogli, facendo naufragare coloro che, invece, avrebbe dovuto accompagnare.

Per non fallire il conduttore deve esperire continuamente e quotidianamente il proprio e l’altrui (possibile e inaspettato) immagimare, cogliendo ogni occasione per partecipare alla Grande Conversazione che sempre lo riguarda e dalla quale, sempre, dovrebbe farsi riguardare; sola condizione in grado di metterlo al centro di quella Formazione che sussiste in uno spazio (più mentale che fisico) in cui l’allievo e il maestro possono porre i propri sguardi l’uno di fronte all’altro, riconoscendosi vicendevolmente come portatori d sapere. Così come è necessario, al contempo, che il conduttore si faccia sensibile e aiuti i suoi esploratori a sensibilizzarsi, magari proprio cospargendosi con l’emulsione del sapere condiviso e continuamente rinnovato e rilanciato, riprovocato: quel bagno chimico dove la carta fotografica cattura i segnali della luce e disegna le latenze, affinché ogni segno possa emergere dai bagnirivelatori dello sguardo e fissarsi e reificarsi in immagini, poesie, racconti: ossia nei costrutti di quella “Natura Morta” che dicevamo all’inizio ma che, oramai, passata e ripassata in questo processo alchimico, comincia a dare i primi segni di una inaspettata vitalità.

I nostri equipaggi ora tornano nei loro porti con il carico di immagini e di storie che hanno saputo immortalare e che adesso sono pronti a reimmettere nel gioco dei linguaggi quotidiani.

Ora le storie diventano Storia, racconti che si liberano dalla gabbia delle latenze e che, quindi, possono essere narrati, possono diventare patrimonio dei territori e delle comunità, testimonianza dei viaggi avventurosi dei loro giovani protagonisti. Possono diventare segni tangibili di identità in crescita che, dinamicamente, sanno costruirsi in forme sempre più capaci di confrontarsi. Ma non solo.

Ogni racconto, ogni immagine portata dai nuovi mondi che i naviganti hanno saputo attraversare, diventa anche frammento di quella carta nautica in perenne divenire che disegna il nostro immaginare e che, al contempo, rappresenta anche uno dei più importanti strumenti di formazione per l’educatore come per l’educando.


2. La Mappa

Questo capitolo, che si appresta a dipanarsi sotto il titolo “La Mappa” e che segue il precedente “Territorio”, prende a prestito la nota riflessione di Alfred Korzybski su come la mappa non sia riducibile al territorio, per sottolineare una distanza (anche linguistica) tra la dimensione precedentemente evocata e questa che ci apprestiamo a percorrere. Infatti, la necessaria astrazione che alimenta la visionarietà chiede, per poter diventare progetto, il confronto con il reale, con la materialità, ma sempre tenendo -appunto- presente che la mappa non è il territorio, anche se può avere una struttura simile a quella del territorio che ne spiega l'utilità.

Ciò significa, che è fondamentale tracciare un disegno del possibile come strumento per immaginare il reale, ma che questo disegno non va confuso con il reale.

Nel reale le cose, in realtà, si fanno non solo più complicate, ma immensamente più affascinanti. Non perché nel reale l’immaginario si confronta con la sua applicabilità, ma perché è proprio nel confronto col reale che l’immaginario può scatenarsi assumendo ogni limite che la fattualità del reale ci impone come trampolino di lancio per raggiungere l’infinito.

Ogni dispositivo pedagogico è una creatura che si compone di elementi di diversa natura tenuti insieme da leggi e legami visibili e invisibili, a tratti misteriosi, a volte quasi inspiegabili: corpi, gesti, emozioni, sostanze che nessuna mappa, per quanto precisa e sofisticata, potrà mai restituire in tutta la sua profondità né, tantomeno decriptare, di questo organismo complesso, i codici in continua trasformazione sotto il costante stimolo della realtà.

Ogni limite, deve essere inteso non come un ostacolo inceppante, ma come un ostacolo che, nella necessità di doverlo superare, ci obbliga a inventare strumenti, strategie, dispositivi cui non avremmo mai pensato se la mappa fosse perfettamente sovrapponibile al territorio.

Tracciamo di seguito (seguendo per comodità e per rendere leggibile, comprensibile e, perché no, reiterabile il percorso a chi voglia accostarvisi) una scansione crono-logica che tenta di riassumere le molteplici esperienze che questo dispositivo ci ha consentito di maturate con gruppi di ragazzi adolescenti e pre-adolescenti, ma anche con gruppi di educatori in formazione.

2.1. L’ingaggio
La questione dell’ingaggio assume in questo dispositivo un’importanza fondamentale e si svolge fin da subito sotto il segno della finzione.

Abbiamo già accennato, nel precedente capitolo, come la “strategia” della finzione non debba intendersi negativamente, ma quale necessario veicolo per edificare quel climax vitale affinché l’avventura abbia luogo; affinché un semplice laboratorio possa diventare un’avvincente ricerca antropologica, un’affascinante indagine artistica, un misterioso viaggio nelle profondità dell’essere umano.

Per questo, fin dal primo incontro, è necessario che il conduttore del laboratorio incontri il gruppo dei partecipanti a partire da un suo mascheramento, da una finzione -appunto- che immediatamente deve mettere in campo e di cui subito si deve fare carico in prima persona.

Il conduttore dirà ai partecipanti che è un antropologo, che è un artista, un archeologo, un regista, o quant’altro l’opportuna fantasia gli suggerisca per creare l’affascinante gioco della versosimiglianza.

A partire da questa affascinante menzogna, il conduttore non chiederà al gruppo di partecipare ad un laboratorio creativo, espressivo, animativo e tutti gli altri infiniti -ivo ormai fin troppo abusati, ma gli chiederà di aiutarlo a compiere la sua ricerca; sposterà immediatamente l’asse educativo dalla posizione asimmetrica ad una posizione più bilanciata che non rinuncia ad una necessaria posizione di guida, seguendo la logica per cui una ricerca che ha come oggetto l’adolescente, non può esimersi dall’integrarlo come soggetto.


2.2. Il Grande Magazzino Degli Sguardi Inaspettati
Una volta stabilito il contratto con il gruppo e sancita la partecipazione di tutti i suoi componenti, il conduttore propone la lettura di tre brani quale viatico che faciliti e stimoli l’accesso al nostro immagimare.

Si tratta di tre piccoli racconti, rapiti dalla letteratura contemporanea e tradotti per noi in una sorta di “Cosmonautica degli oggetti” che, tra i suoi infiniti navigatori, ci ha visto scegliere: Luis Buñuel, Antoine de Saint-Exupéry e Primo Levi.

Leggiamoli insieme.


2.2.1 Le Cose animate
E’ indubbio, però, che nell’ambito delle cose inanimate esistono le passioni.

Qualche anno fa comprai un piccolo panno di camoscio che mi era stato simpatico, lì, nella vetrina dove stava. Avevo l’abitudine di appenderlo ad un chiodo, alla finestra e lì trascorreva tranquillamente la sua esistenza. Quando entravo nella mia stanza muoveva allegramente le minuscole braccia spigolose e non smetteva di farmi dei segni finché non lo prendevo tra le mani. Aderiva ad esse teneramente comunicandomi il suo dolce tepore con un affetto paragonabile soltanto a quello di una madre che accarezza il figlio.

La sua lingua di pezza mi soleva raccontare delle cose tutto sommato inspiegabili per me, essere umano.

Se, prima di iniziare la pulizia degli occhi, non accarezzavo la sua chioma soffice e sottile, mi si intrecciava alle dita di continuo fintantoché non otteneva l’agognata carezza. Insomma, tanto lui che io provavamo l’uno per l’altro un vero affetto. Ed era da vedere come sorrideva tra le pieghe nei giorni di sole, o come piangeva aggrondato e malconcio nei giorni di pioggia!

Un giorno, però, notai che non era più al suo posto. Mi ricordai dell’ingenuo scherzo che mi aveva fatto altre volte nascondendosi tra i mobili. Non trovandolo, però, capii che era successo qualcosa di tremendo. Passai tre o quattro mesi immerso in una tristezza spiegabile soltanto con la scomparsa del mio piccolo amico.

Ma un giorno, mentre camminavo per i dintorni, rimasi atterrito da uno spettacolo spaventoso. Un vento impetuoso faceva gemere dal dolore i pali della strada, mentre eserciti di nuvole in livida uniforme scorrevano nel cielo seminando la distruzione. In mezzo a quel quadro, appeso ad un cavo del telegrafo, giaceva morto il mio indimenticabile panno.

Una tristezza d’oltretomba lo avvolgeva mentre i suoi brandelli lacerati si muovevano al vento; e appariva beccato senza pietà dalla pioggia e dal vento. Ancor oggi, quando ci ripenso, mi commuovo.

Questo triste caso dimostra l’affetto reciproco che ci prende a volte per le cose inanimate. E quell’affetto sviscerato che proviamo per la nostra pipa, per la teiera, per il bastone, o la cravatta, non è forse una giusta corresponsione ai loro favori?

[…] Ascoltate adesso quello che mi capitò l’altro giorno.

Stavo leggendo il giornale, quando all’improvviso udii un breve gemito dall’attaccapanni. Il mio fiammante pigiama, comprato da non molto, si era appena suicidato lanciandosi a terra. Lo stupore fu al colmo quando ripensai a quello che avevo appena letto nel giornale: la notizia del terribile incendio del “Grande Magazzino di tessuti” dove l’avevo acquistato. Le fiamme, intente al saccheggio, l’avevano distrutto completamente.

Che il pigiama avesse letto della morte dei suoi fratelli? Che ne avesse avuto il presentimento? Non so. Ma una cosa è sicura: l’affettività è una prerogativa dell’inanimato.


2.2.2 Le Cose addomesticate
[…] In quel momento apparve la volpe.
"Buon giorno," disse la volpe.
"Buon giorno," rispose gentilmente il piccolo principe, voltandosi: ma non vide nessuno.
"Sono qui," disse la voce, "sotto il melo…".
"Chi sei?" domandò il piccolo principe, "sei molto carina…".
"Sono una volpe," disse la volpe.
"Vieni a giocare con me," le propose il piccolo principe, "sono così triste…".
"Non posso giocare con te," disse la volpe, "non sono addomesticata.".
"Ah! Scusa," fece il piccolo principe. Ma dopo un momento di riflessione soggiunse: "Che cosa vuol dire addomesticare?".
[…] "E’ una cosa da molto tempo dimenticata. Vuol dire creare dei legami…".
"Creare dei legami?". "Certo," disse la volpe. "Tu, fino ad ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l’uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo.".
"Comincio a capire," disse il piccolo principe.
[…] "Per favore… addomesticami," disse la volpe.
"Volentieri," rispose il piccolo principe, "ma non ho molto tempo, però. Ho da scoprire degli amici, e da conoscere molte cose.".
"Non si conoscono che le cose che si addomesticano," disse la volpe. "Gli uomini non hanno più tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercanti le cose già fatte. Ma siccome non esistono mercanti amici, gli uomini non hanno più amici. Se tu vuoi un amico addomesticami!".
"Che bisogna fare?" domandò il piccolo principe.
"Bisogna essere molto pazienti," rispose la volpe. "In principio tu ti siederai un po’ lontano da me, così nell’erba. Io ti guarderò con la coda dell’occhio e tu non dirai nulla. Le parole sono una fonte di malintesi. Ma ogni giorno tu potrai sederti un po’ più vicino…".
Il piccolo principe ritornò l’indomani.
"Sarebbe stato meglio ritornare alla stessa ora," disse la volpe. "Se tu vieni per esempio, tutti i pomeriggi alle quattro, dalle tre io comincerò ad essere felice. Col passare dell’ora aumenterà la mia felicità. Quando saranno le quattro, incomincerò ad agitarmi e a inquietarmi; scoprirò il prezzo della felicità! Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore...".
[…] Così il piccolo principe addomesticò la volpe. E quando l’ora della partenza fu vicina:
"Ah!", disse la volpe, "piangerò…".
"La colpa è tua", disse il piccolo principe, "io non ti volevo far del male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi...".
"E’ vero," disse la volpe. "Ma piangerai!” disse il piccolo principe. "E’ certo," disse la volpe.
[…] "Addio," disse.
"Addio," disse la volpe. "Ecco il mio segreto. E’ molto semplice: si vede bene solo col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi. […] Gli uomini hanno dimenticato questa verità. Ma tu non la devi dimenticare. Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato.".

2.2.3 Le Cose abbandonate
[…] E venne la notte, e fu una notte tale, che si conobbe che occhi umani non avrebbero dovuto assistervi e sopravvivere. Tutti sentirono questo: nessuno dei guardiani, né italiani né tedeschi, ebbe animo di venire a vedere che cosa fanno gli uomini quando sanno di dover morire. Ognuno si congedò dalla vita nel modo che più gli si addiceva. Alcuni pregarono, altri bevvero oltre misura, altri si inebriarono di nefanda ultima passione.

Ma le madri vegliarono a preparare con dolce cura il cibo per il viaggio, e lavarono i bambini, e fecero i bagagli, e all’alba i fili spinati erano pieni di biancheria infantile stesa al vento ad asciugare; e non dimenticarono le fasce, e i giocattoli, e i cuscini, e le cento piccole cose che esse ben sanno, e di cui i bambini hanno, in ogni caso bisogno. Non fareste anche voi altrettanto? Se dovessero uccidervi domani col vostro bambino, voi non gli dareste oggi da mangiare?

Nella baracca 6A abitava il vecchio Gattegno con la moglie e i molti figli e i nipoti e i generi e le nuore operose. Tutti gli uomini erano falegnami; venivano da Tripoli attraverso molti e lunghi viaggi, e sempre avevano portati con sé gli strumenti del mestiere, e la batteria di cucina, e le fisarmoniche e il violino per suonare e ballare dopo la giornata di lavoro, perché erano gente lieta e pia. Le loro donne furono le prime fra tutte a sbrigare i preparativi per il viaggio, silenziose e rapide, affinché avanzasse tempo per il lutto; e quando tutto fu pronto, le focacce cotte, i fagotti legati, allora si scalzarono, si sciolsero i capelli, e disposero al suolo le candele funebri, e le accesero secondo il costume dei padri, e sedettero a terra a cerchio per la lamentazione, e tutta la notte pregarono e piansero.

2.2.4 Senso e utilizzo della cosmonautica
Attraverso queste tre letture si apre, dunque, un universo di molteplicità investigative intorno al mondo degli oggetti.

Le direzioni dell’indagine sono tutte possibili e demandate alla capacità del conduttore, a partire dai modi infiniti cui questi racconti si possono leggere, animare, drammatizzare; ma anche alla possibilità di scovare e restituire, insieme al gruppo, visioni correnti e desuete dei significati cui possono rimandare nella loro relazione con la questione degli oggetti, così come la stiamo trattando.

Si pensi, ad esempio, a come i tre brani proposti, rappresentino anche tre momenti della crescita umana nel suo relazionarsi con la dimensione dell’oggetto. L'infanzia, nel racconto di Buñuel, con la sua capacità di fantasticare all'infinito riempiendo di vita l'oggetto inanimato; l'adolescenza, nel brano di Antoine de Saint-Exupéry, con il suo aggrapparsi ad un oggetto unico tra tutti, riconoscendolo e addomesticandolo;l'età adulta, nella descrizione di Levi, con la sua necessità di abbandonare gli oggetti a seguito delle varie traversie cui la vita inevitabilmente ci chiama (matrimonio, trasloco, mancanza di spazio, separazioni, etc.), al cui estremo troviamo la morte.

Insomma, un esempio, tra i tanti, delle riflessioni concrete cui si può risalire, utilizzandole come stimolo per avviare dibattiti e confronti con il gruppo.

L'obiettivo principale è comunque quello di portare i partecipanti alla consapevolezza, come abbiamo più volte sottolineato nel capitolo precedente, che dietro ogni oggetto, anche il più banale, si può nascondere una storia che non è solo la storia dell'oggetto, bensì la storia fisica e psichica dell'Uomo cui quell'oggetto appartiene e che ha fatto di quell'oggetto un simulacro carico di simbologie e significati che vanno ben oltre la sua natura superficiale.

Si scopre in questo modo, e si invitano i ragazzi a scoprirlo attraverso la condivisione degli esempi, che anche un mattarello può avere un grande valore se è il regalo che il mastro panettiere ha fatto al suo fido garzone ormai impratichito nella tecnica dell’impasto, e che un vecchio registro per un insegnante può contenere tutta una vita di ricordi, e che la sciarpa del fidanzato può raccontare alla sua ragazza tutto un mondo di baci e tenerezze. Si scopre, insomma, che ogni oggetto che carichiamo di affettività è, come abbiamo più volte sottolineato, un potente media in grado di parlare di noi: delle nostre paure, dei nostri dubbi, delle nostre insicurezze, ma anche dei nostri sogni, dei nostri amori, delle nostre passioni e che, in questa ipotetica “natura morta”, non c'è mai stato nulla di più vivo.

A partire da queste riflessioni, esemplificate queste categorie e i loro significati, ogni dei partecipante è chiamato a cercare, tra i materiali mnemonici della sua esistenza, almeno un oggetto che, a suo dire, possa essere catalogato tra quelli appartenenti a questa possibile galleria dell’inanimato.

Quindi ci si lascia, dandosi appuntamento all’incontro successivo, con l’impegno di recuperare e portare l’oggetto eletto a compagno di viaggio.


3. Personificare l’oggetto
In questa fase inizia il lavoro vero e proprio.
Tutti i ragazzi hanno portato il loro oggetto. Il conduttore se ne sincera, ma chiede, per il momento, di non mostrarli. Quindi distribuisce un’apposita carta di identità da compilare che, campo dopo campo, chiede di attribuire una serie di caratteristiche e di dati riguardo l’identità e la storia anagrafica dell’oggetto, esercitando così una funzione di personificazione dello stesso attraverso l’attribuzione di caratteri antropologici (in questo senso è importante che lo strumento si presenti proprio come una carta d’identità, in modo da metaforizzare il passaggio da oggetto la cui identità si dà per scontata, a oggetto identificato).

Di seguito i campi di questo particolare strumento:

NOME......
NATO IL...... A......
DECRIZIONE......
SUPERFICIE…......
LUOGO DOVE STA E VIVE......
SEGNI PARTICOLARI......

Nella parte della carta d’identità dove normalmente troviamo la fotografia, il conduttore chiede ai partecipanti di disegnare l’oggetto.

Terminata la compilazione delle carte di identità, ognuno dei partecipanti è invitato a presentare agli altri il proprio oggetto utilizzando la carta d’identità come falsa riga per una restituzione veloce, ma completa, che metta tutti i partecipanti al corrente degli oggetti recuperati.

La funzione è sempre quella di “dargli vita”, in questo senso metaforizzando una sorta di debutto in società che si materializza nella condivisione con gli altri di questa nuova entità che si è venuta a creare.

Allora, l’oggetto, che ora si chiama “Lucone” e non “coltellino”, “DJ-Ax” e non “sciarpa”, “Johnny” e non “berretto”, entra attivamente a far parte della vita della piccola comunità psichica che il gruppo e il suo conduttore rappresenta e che, a partire da questo momento, costruirà esperienze nelle quali sarà necessario giocare e giocarsi, trattando l’oggetto come s-oggetto integrante della comunità stessa.


4. Animare l’oggetto
Con gli strumenti che solo la fantasia, quando sa lanciarsi con la spinta investigativa della ricerca artistica, è in grado di dipanare, prende abbrivio un percorso tutto volto alla sperimentazione di tecniche in grado di far parlare, muoversi, trasformare, interagire, svelare, raccontare, questa nuova popolazione che parla la lingua dei simboli.

La richiesta è, dunque, quella di animare l'oggetto, di farlo vivere, di farlo esprimere, di farlo parlare in prima persona e raccontare, ma non una storia qualsiasi, ma la sua storia di oggetto e la storia dell'incontro con il suo "padrone".

Ecco quindi che ogni partecipante si misura con la voglia di narrare, di cercare: negli archivi della propria memoria, nelle tracce segnate sul terreno della propria esperienza, nell'immaginario che colorisce, enfatizza, satura i vuoti e, se necessario, inventa e fantastica.

È un gioco dove la realtà e l'immaginazione si confondono e dove è sempre possibile tutto e il contrario di tutto: racconti di avventure e scorribande, grandi anfratti di intimità, tenere giornate e luttuosi incidenti.

Il racconto può essere scritto, oppure narrato davanti alla telecamera, fotografato per costruirne il foto-romanzo, drammatizzato, dispiegato attorno a qualche focolare simbolico ma, al di là della tecnica utilizzata, l'importante è che si apra il sipario sulle storie di questi oggetti e che, ognuno di loro, insieme al suo proprietario, calchi la scena delle proprie fantasie, dei propri desideri, delle proprie voglie di protagonismo.

Segnaliamo, di seguito, a puro titolo esemplificativo, alcune modalità già sperimentate con successo, per stimolare questa produzione.

4.1 Terzo grado
Questo piccolo dispositivo si rifà all’intrigante climax dei racconti polizieschi dove mai manca la scena dell’interrogatorio in cui, un più o meno abile investigatore, cerca di estrapolare gli indizi più reconditi di un misfatto, di una storia.

Per dare giusto abbrivio al percorso è necessario, però, che i partecipanti siano al corrente di quelle che sono le storie degli oggetti. Il conduttore chiederà, quindi, ai partecipanti di narrare brevemente la storia del loro compagno di viaggio, magari dotando ogni partecipante di un foglietto con non più di una decina di righe per scrivere, in modo da vincolare alla sintesi e rammentando, altresì, che possono utilizzare la carta d’identità dell’oggetto come punto di partenza e di riferimento, e da lì partire per un breve ampliamento.

Dopo che tutti i partecipanti hanno terminato, le brevi storie di ogni oggetto vengono lette una a una e si apre una parte interattiva dove ognuno diventa intervistatore dell'oggetto dell’altro.

Ad ogni partecipante è chiesto di scegliere la storia che più lo ha intrigato, facendo in modo che nessuno rimanga escluso. Colui che sceglie sarà, evidentemente, l’investigatore e colui che è stato scelto l’investigato.

A questo punto, si sistema l’oggetto sopra un tavolo e l’investigatore, come un vero Sherlock Holmes, comincia a tempestarlo di domande, cercando di penetrare negli anfratti della sua storia, di amplificarne il senso.

A queste domande sarà, naturalmente, la voce del proprietario dell’oggetto che, fuori campo, cercherà di risponde, magari cercando di dargli l’intonazione che lui crede tipica dell’oggetto, di rispettarne la personalità e le peculiari caratteristiche.

Un lavoro di doppiaggio, insomma, ma anche di messa in scena, di fiction che concentra in sé una ricca serie di elementi narrativi che approfondiscono, scavano e arricchiscono la storia degli oggetti e dei loro proprietari.

Ogni interrogatorio può, volendo, essere filmato per prestarsi poi a successive visitazioni in cui tornare a riflettere sugli elementi emersi.

4.2 La Baracca
Un altro modo di “fare parlare gli oggetti” chiama in causa l’affascinante mondo dei burattini o, appunto, degli oggetti animati. È cioè possibile che gli oggetti vengano mossi come pupazzetti, magari tirando una corda da una parte all'altra della stanza sulla quale appendere un lenzuolo che faccia da parete dietro cui nascondersi e dalla quale fare emergere l'oggetto-burattino: farlo narrare, muoversi, interagire con altri oggetti.

Può essere importante, in questo caso, che i partecipanti siano lasciati assolutamente liberi di improvvisare le loro storie, mettendo in scena situazioni in cui la ricerca si completa all'interno di un atto creativo che può essere anche assolutamente disarticolato, un momento in cui è importante divertirsi e giocare anche senza freno alcuno e con la sola clausola che sia l’oggetto il protagonista delle nostre carambole.

Sarà così più facile fare emergere elementi evocati dal gioco del rincorrersi dall’irrazionale all'irrazionale e viceversa, coperti dalla maschera dell’oggetto che facendo le nostre veci ci aiuta ad esternare elementi che, probabilmente, farebbero fatica a comparire utilizzando altri dispositivi.

Compito del conduttore, in questo caso, è quello di appuntare le situazioni emergenti più significative, in modo da poterle rimettere in gioco in un successivo momento di riflessione.

4.3 L’intervista doppia
L’idea di dispositivo prende spunto da una nota trasmissione televisiva e, per questo, non solo risulta facilmente fruibile, ma di elevata efficacia, nonostante la complessità dei codici che il partecipante è chiamato ad utilizzare.

Il conduttore, senza rivelare la natura del dispositivo, chiede ad ogni partecipante di compilare una serie di 5 domande da rivolgere ad uno degli oggetti altrui che l’hanno particolarmente incuriosito.

Quando tutti hanno finito di compilare le domande, viene allestito il setting: una telecamera con cavalletto e una struttura divisoria che permetta di tenere separate, nel video, l’immagine dell’oggetto da quella del suo proprietario (è sufficiente un cartone o una tenda, l’importante che il risultato finale mostri l’oggetto e il soggetto divisi).

A questo punto un intervistatore (che può essere uno dei ragazzi o il conduttore) fa partire l'intervista nella quale, ad ogni domanda, deve rispondere sia l'oggetto che il suo proprietario.

Per fare questo, il partecipante, risponderà prima come se stesso, stando su un lato del setting e, successivamente, spostandosi sul lato dove è posto l'oggetto, lo doppierà dotandolo di una voce diversa dalla sua.

Le riprese video, così definite, richiederebbero, ai fini di ottimizzare il risultato finale, un montaggio video, neanche troppo sofisticato. Tuttavia il dispositivo ha comunque un’alta efficacia e può funzionare anche in mancanza della possibilità del montaggio.

4.4 Short Object Message
Il linguaggio degli SMS è entrato tanto repentinamente e efficacemente nei modi di comunicare dei ragazzi da rappresentare una grande opportunità espressiva attraverso la quale, spesso, riescono ad esprimere colori e sfumature che nel linguaggio verbale non sempre emergono.

Il ridotto spazio a disposizione obbliga l'autore del messaggio ad una sintesi che può diventare interessante e stimolante, anche dal punto di vista narrativo.

La situazione che viene proposta ai partecipanti è del tipo: “Il tuo oggetto è andato in vacanza e ti invia alcuni SMS”, oppure: “Il tuo oggetto è scomparso improvvisamente e da un luogo sconosciuto ti invia alcuni SMS”.

Viene quindi distribuito un foglio con gli spazi predefiniti (campi di 136 caselle -una per ogni carattere) sul quale ognuno elabora i propri messaggi.

Questo dispositivo può essere utilizzato anche dal conduttore che, senza rivelare lo scopo, chiede ai partecipanti il loro numero di cellulare e, in seguito, a sorpresa, gli invia degli SMS, come se a scrivere fosse l'oggetto del partecipante, stimolando così una corrispondenza che avrà cura di trascrivere, in modo da farne un documento su cui riflettere o utilizzare in seguito.

4.5 Spotspot
Questo dispositivo riesce solitamente a creare un particolare entusiasmo nei gruppi di ragazzi poiché, proprio come gli spot pubblicitari, chiama alla necessità di utilizzare quella molteplicità di linguaggi cui le nuove generazioni paiono geneticamente avvezzi.

Proprio come per uno spot pubblicitario, si tratta di elaborare la sceneggiatura di un piccolo movie che abbia al centro la promozione di ogni oggetto.

Questo dispositivo è assai complesso ma, come potrete notare, i ragazzi riescono a gestirlo al meglio.

La sua realizzazione prevede alcune fasi preliminari in cui il conduttore affianca e stimola i partecipanti: prima attraverso il classico brainstorming, in cui si va a caccia delle idee più giuste; poi, da lì, nella stesura del soggetto e della sceneggiatura, fino ad arrivare alla realizzazione in video del commercial vero e proprio.

La dimensione importante da tenere al centro delle invenzioni e della loro messa in scena e su cui far riflettere i partecipanti, è che lo spot, per sua natura, si definisce anzitutto come portatore di un messaggio e che è quindi a quel messaggio che devono dedicare la loro attenzione creativa.

Una parte interessante e non trascurabile è data inoltre dalla varietà dei ruoli che questo dispositivo consente di distribuire: dal regista, agli attori, dal tecnico luci, al costumista, al truccatore e al cameraman; affinché ciascuno possa partecipare al mondo dell’oggetto dell’altro.

4.6 Cortissimi
Come per la realizzazione dello spot anche in questo caso si tratta di costruire una breve storia da mettere in scena dandogli la forma del cortometraggio.

Facendo tesoro dell’esperienza del cinema di animazione e dei film di oggetti di tradizione dadaista e surrealista, è possibile, utilizzando una telecamera che consenta la registrazione fotogramma per fotogramma, realizzare dei video davvero sorprendenti.

I passaggi per la sua definizione non sono differenti da quelli osservati per lo spot, così come i possibili ruoli cui può chiamare i partecipanti.

Quello che cambia è forse una maggiore attenzione che si può richiedere ai partecipanti dal punto di vista della pura narrazione, nel senso che la tipologia di linguaggio narrativo cui fa riferimento potrebbe, volendo, suggerire e produrre storie e aneddoti che, a differenza dello spot, si possono concedere il privilegio di concentrarsi maggiormente sulla trama senza tenere in considerazione il messaggio.

4.7 Un processo sempre unico e irripetibile
Ci preme ribadire che questi dispositivi appena accennati vogliono essere solo semplici e brevi indicazioni il cui compito è più quello dello stimolo che non quello del rigido palinsesto.

In realtà il percorso del laboratorio, per quel che concerne gli incentivi capaci di estrapolare le immagini e le narrazioni dei partecipanti, dovrebbe essere soprattutto dettato dalla fantasia e dalla capacità del conduttore che si rapporta con il suo gruppo e definisce, di volta in volta, in base agli stimoli che il gruppo stesso gli suggerisce, quali meccanismi e quali strategie è meglio adottare per le finalità che ci siamo posti.

Questa fondamentale attenzione fa di “Natura morta con Adolescente” un processo sempre unico e irripetibile, poiché non spinge i partecipanti lungo percorsi preordinati, ma chiede che sia sempre l’incontro con l’Altro a suggerire e inventare ogni volta le strade possibili da seguire.

Avremo in questo modo un dispositivo realmente efficace che si presenta davvero come un organismo complesso, irriducibile a qualsiasi programmazione, ricetta, vademecum, compreso quanto, di tutto questo, abbiamo, giocoforza, affermato sinora.


5. Lo scatto finale
Giunti a questo punto del percorso dovremmo avere raccolto una certa quantità di elementi: immagini, scritti, video, riflessioni…

Il tempo necessario per compiere questa raccolta dipende da una serie di variabili difficilmente definibili: le risorse, anzitutto, gli spazi a disposizione, il materiale, le tecnologie ma, soprattutto, la profondità che vogliamo e possiamo raggiungere o, per stare nella nostra metafora, la quantità di territori che, navigando dal nostro immagimare, vogliamo e possiamo attraversare.

Le varie esperienze da noi affrontate ci hanno portato a compiere questo viaggio anche nell’arco di tre soli incontri, come non sono mancate attraversate che sono durate un intero anno scolastico. Tuttavia, per quanto i tesori riportati siano stati evidentemente diversi, abbiamo potuto verificare che la loro qualità non divergeva e che tutti, alla fine, hanno potuto riconoscere nelle loro mappe, come in quelle altrui, il fascino di una scoperta.

Si tratta di una scoperta che si rivela, come abbiamo già detto, dai materiali prodotti ma che chiede il contributo del conduttore per svelarsi in tutta la sua pregnanza. In questa fase il conduttore è chiamato a ricondurre il gruppo ad una riflessione complessiva su quanto accaduto durante i loro incontri, fino a fare scegliere ad ogni singolo partecipante una serie di immagini e di testi che, a suo avviso, meglio rappresentino la sintesi del suo viaggio.

Per farlo ha, evidentemente, a disposizione tutti i materiali scaturiti, ma il suo compito è anche quello di fare da memoria storica di ciò che quei materiali “non dicono”, ossia: gli aneddoti, le battute, le riflessioni che il gruppo ha generato durante le varie fasi di lavorazione. È consigliabile, pertanto che, durante il percorso, il conduttore tenga traccia di questa materia volubile e importantissima, magari scrivendo un diario di bordo.

Inoltre, l'attenzione del conduttore in questa fase è anche quella di stimolare il gruppo anche a una sorta di analisi metalinguistica dei prodotti, facendo continuamente lo sforzo di sospendere il proprio giudizio personale e la propria influenza sulla determinazione dei significati possibili.

A questo punto, di fronte ai materiali e dopo le riflessioni emerse, ogni partecipante sceglie i colori e i segni, le immagini, le storie che crede sia più utile esportare su quella tavolozza ideale che darà vita al sua opera conclusiva. Ed è a questo punto che scopre che, tutto quello che finora ha realizzato, altro non è stato che un fondamentale studio preparatorio, una sorta di allenamento indispensabile che ora gli consentirà di compiere una sintesi finale dove congelare l'attimo che, a suo avviso, tutto contiene e esprimere del viaggio che ha compiuto.

Non è necessario che il conduttore sveli questo arcano, che chieda ai partecipanti di compiere razionalmente questo sforzo. Magicamente, incredibilmente la sintesi si compirà da sola quando, ad ognuno, verrà chiesto di mettersi dietro una macchina fotografica e di scattare tre immagini: una in cui compaia l'oggetto, una in cui compare il suo proprietario e una in cui oggetto e proprietario compaiano insieme.

È importante, in questo caso, costruire qualcosa che assomigli il più possibile ad un set fotografico e, soprattutto, calare il partecipante nei panni del Grande Artista pronto all’atto della Creazione.

Il conduttore gli farà da assistente: posizionando l’oggetto come l’artista chiede, calibrando le luci secondo quel particolare effetto che l’artista vuole ottenere, non forzando i tempi della realizzazione, etc.

È fondamentale, cioè, che l’atto della Creazione abbia il suo Demiurgo e che questo si senta davvero tale.

Solo così, l’ossimoro vitale in cui la natura morta e il vivo adolescente entrano in relazione, potranno definirsi in una vera immagine dialettica che brulica di significati palesi, latenti e sottesi.

6. Esponiamoci
Come per ogni produzione artistica è indispensabile che l'opera (le opere) incontri lo sguardo del pubblico, in quanto è solo attraverso questa alchimia finale che l’opera prende definitivamente vita: colta da un soffio di energia che la farà vivere in eterno, proprio perchè condivisa con l'immaginario altrui.

Un’esposizione delle opere dei partecipanti allora chiude e, in qualche modo rilancia il nostro percorso: affiggendo le opere finali del gruppo ma anche, volendo, i materiali preparatori, le pietre grezze da cui sono stati raffinati gli scatti finali.

Una galleria che può avere diverse locazioni oltre a quella consueta dello spazio fisico. Può, infatti, raccogliersi in un sito internet, può diventare un libricino che contiene le immagini e le storie, ma anche un Dvd, una serie di t-shirt, e quant'altro la fantasia e le risorse consentano.

Si tratta di un momento importantissimo che non deve essere vissuto come estraneo al dispositivo pedagogico, che non deve configurarsi come mero elemento coreografico o di quella parola orribile, ma oggi tanto in voga, che è la “visibilità” (che si manifesterebbe nell’evento, come se fuori dall’evento si evidenzi invece un’invisibilità -concezione per altro tipica dell’odierna società dei consumi), ma che deve essere anch’esso studiato nei minimi dettagli, come se fosse la mostra del più grande artista della terra, inseguendo e tenendo al centro un altro vocabolo: la dignità.

Il momento espositivo deve essere strutturato affinché i lavori dei ragazzi siano restituiti al mondo non solo con tutti i loro significanti e i loro significati, ma anche all’interno di una cornice che sia la più dignitosa possibile. È, cioè, fondamentale superare la logica di troppe sì fatte restituzioni che, appellandosi a vario titolo o alla scarsità delle risorse o all’incapacità o alla mancanza di tempo, finiscono per appiccicare malamente i prodotti a qualche muro ignorando, tra l’altro, che l’esposizione è parte costitutiva dell’opera.

Risorse, capacità, tempo per strutturare la mostra finale vanno quindi definite fin dall’inizio come parte indivisibile dell’intero percorso, pena il suo insuccesso.

Attraverso l’esposizione, infatti, l’opera non solo prende vita, non solo diventa patrimonio della comunità in cui è germinata, ma si fa anche strumento di mediazione tra gli autori e il territorio, decretandone, soprattutto in età adolescenziale, l’importantissimo protagonismo.

L’esposizione, quindi, come dispositivo a se stante che esercita una benefica azione promozionale capace di presentare alla comunità l’adolescente, e di riflesso l’adolescenza, come importante risorsa del territorio.


7. All'attenzione del conduttore
Concludiamo con alcune attenzioni a cui richiamiamo la riflessione di chi vorrà utilizzare concretamente questo percorso.

Si tratta di una serie di indicazioni che discendono direttamente dall’utilizzo di questo dispositivo non tanto con i ragazzi, quanto in quei contesti formativi dove il nostro gruppo di riferimento era formato da educatori, animatori, psicologi; ossia in quei contesti dove il nostro compito era proprio quello di cercare di capire le difficoltà e gli ostacoli di chi avrebbe poi potuto condurre questo viaggio.

La partecipazione attiva del conduttore che porta con sé un proprio oggetto, prende parte alle varie performance, dialoga con i ragazzi portando una propria narrazione; oltre che presentare un forte segnale esemplificativo e stimolante per il gruppo che facilita il compito di conduzione, consente anche un lavoro di auto-narrazione, di auto-osservazione fondamentale per alimentare, con materiali sempre vivi e dinamici, un processo di crescita che non è mai finito e che chiama continuamente la messa in causa di saperi mai conclusivi.

La frequentazione e il continuo approfondimento dei linguaggi che sottendono i vari dispositivi, risulta fondamentale per la conduzione del percorso, poiché solo possedendo le basi linguistiche della fotografia, del video, della narrazione, dell'animazione e di quant’altre discipline si vorranno attivare, si può realmente offrire ai partecipanti un'esperienza significativa. Solo in questo modo, per altro, crediamo sia possibile condurre qualsiasi attività che si fregi dell'utilizzo della dimensione espressiva.

Le tecniche dell'intervista, dell'interrogatorio, dello spot pubblicitario e di ogni altra strategia si voglia utilizzare per stimolare la produzione di storie e artefatti, affinché l'incontro con queste modalità di comunicazione possa rivelarsi realmente efficace, vanno assunte nella loro corretta natura e con le loro regole peculiari, anche se con la necessaria e utile approssimazione.

Il limite di strutture, di materiali, di tecnologie che spesso si incontra nei contesti dove questo tipo di percorsi può trovare preferibilmente asilo, non deve essere vissuto come negativo, semmai come stimolo per rendere proficuo proprio il limite stesso e rivolgerlo in funzione di enorme risorsa.

La riflessione sul limite come risorsa, nel campo dell’espressività è questione fondamentale, ma troppo vasta per essere trattata in questo articolo. Ci basti per ora riflettere su come sia proprio dell'immaginario la capacità di trasformare un bastone in quella spada che, se avessimo a disposizione realmente, non ci avrebbe mai concesso la straordinaria occasione di compiere la magia di essere estratta dalla roccia.

Lo spazio e il tempo di ogni dispositivo, e di questo in particolare, richiede la massima cura e attenzione perchè possa favorire quel processo creativo e di elaborazione biografica che sta al centro del percorso. È necessaria cioè un’estrema attenzione alla cura di tutti gli elementi che compongono il setting, i tempi e i ritmi di produzione, affinché la piacevolezza e il fascino del percorso non vengano sacrificati alla facilità della disorganizzazione e dell'improvvisazione.

In particolare va posta una certa attenzione al tempo della narrazione, dell'immaginazione, dell'invenzione che varia da individuo a individuo. Il conduttore dovrà allora cercare di captare le varie tipologie di personaggi che partecipano al percorso per poter dare a tutti il giusto spazio di elaborazione e di protagonismo valorizzandone al contempo le differenti sensibilità e capacità.

 

Massimo Silvano Galli

Natura Morta Con Adolescente

scritto con Michele Stasi per: Traiettorie impercettibili di P. Barone, Guerini Ed. (2006) di Massimo Silvano Galli
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