"Perdona... Nadie?"

L'umanoide, incontrato al limite della disperazione provinciale di straducole e sentieri inesplorati, neanche fossimo nel Borneo, si china verso il finestrino spalancato dalla Fiat 8e50 (l'unica che sono riuscito a noleggiare per una manciata di pesetas che mi pareva onesta, e l'omino che me l'ha affidata ha pure dovuto aiutarmi a spingerla perché non riusciva a partire), allungandosi dalla postazione guida di un carretto da antologia feudale, con tanto di cavallo da traino e la sua bella faccia da contadinotto pacioccone, con le guanciotte rosee di quella poca brina che ancora rimane di questi tempi pre primaverili.

"Ci va per il lago? Mira che l'hanno portato via..." (?) "hace almeno un anno e poi non è stagione..." la voce calda di tabacco trinciato forte e l'aria ancora buona di queste parti qua, si mischia con gli odori di terra e fieno nel suo alito sfacciato.

"No, cerco la villa reale. Vado bene di qua?"

"No, no. Deve tornare indietro. La prima a destra, poi in fondo in fondo che c'è una salita che sale, avanti avanti, non si può sbagliare, la vede subito...non è rimasto in piedi più niente... ma guardi che la villa è chiusa anche lei!"

"...Be', grazie mille lo stesso" e, mentre faccio per ripartire con quel "non è rimasto in piedi più niente" che mi sculetta tra la tempie, dice:

"Piuttosto, stia attento a non parcheggiare la sua auto insieme alle altre e..." gridando per raggiungermi "mi raccomando... non si faccia ingannare dalla vecchia!" poi, tutti gli eventuali e legittimi perché, rimangono tra me e la strada ancora da percorrere.

...Asfalto. Asfalto. Asfalto. Poi, finalmente, tornante dopo tornante, piano si rivela, discinta, la valle pietrosa e desolata e poco prima dell' ultimo pendio, un cartello arrugginito dice: "Bienvenidos a la tierra de Nadie", naturalmente in varie lingue e in braille per i non vedenti.

La vecchia è lì, seduta s'una seggiola a pochi passi dallo strapiombo. I capelli ossidati che la brezza non smuove, gli occhi smeraldini accecati da una distesa sempre uguale e un viso scavato da migliaia di graffiti scolpiti da civiltà remote e sconosciute.

"Quería entrar?" dice, ma non si volta, rimane immobile a guardare il vuoto lacerato che si apre senza limiti, posando un dolore antico, come occhi materni su milioni di figli dispersi.

"No sé"

I colori sono quelli di una sera di novembre al primo crepuscolo, quando la terra è bruna e un lieve chiarore grigio di nebbiolina avvolge le cose.

"Vede, qui c'era il belvedere" dice a un tratto "ora trasformato in un parcheggio per le auto, dopo la grande immigrazione... La maggior parte della gente arrivava d'estate per rimirare il lago fino ai suoi confini più estremi, ma adesso il lago non c'è più: lo stanno restaurando, e quello che rimane è una buca melmosa di detriti... In compenso ci sono televisori lungo tutto l'argine dello strapiombo e con poche pesetas, è possibile vedere com'era il paesaggio... Per avere un'idea della grande immigrazione è sufficiente guardare le auto posteggiate... Sono centinaia di milioni, tutte perfettamente in fila indiana lungo una linea immaginaria che si perde dietro un orizzonte di cartone colorato... Quelle arrivate per ultime sono le meno impolverate, le altre sono ferme qui da decenni, perché il parcheggio si paga solo all'uscita e le tariffe non sono in soldi ma in rimorsi di coscienza... E poi, una volta lasciato il parcheggio, è difficile tornare indietro... L'uscita diventa un miraggio di carrozzerie sotto il sole che si coglie in lontananza, un'interminabile cortina di lamiera che separa il vuoto dalla realtà... Comunque sono davvero pochi quelli che decidono di tornare, i più si sono sparpagliati verso non-direzioni, senza obbiettivi... Per questo è pressoché impossibile sapere quanti sono... Un tempo c'era del personale, prendevano il nome di quelli che entravano... Erano uomini del governo che controllavano il fenomeno, poi un giorno se ne sono andati: hanno capito che erano innocui, che non avrebbero mai fatto niente... Quelle là in fondo sono montagne di immondizia che col tempo s'è calcificata... Molti vi hanno ricavato delle insenature e hanno stabilito lì la loro dimora... All'inizio la puzza era davvero insopportabile e arrivava fino qui, poi, col tempo, è andata scemando e solo nelle rare giornate di pioggia l'odore torna a farsi davvero vivo e si può udire l'acciottolio degli oggetti che staccandosi rompono il silenzio e scivolano a valle... La scelta non è stata casuale... Quella è la zona più riparata dalle intemperie e dagli sbalzi di temperatura che possono raggiungere anche gli ottanta gradi di giorno e scendere di venti sotto zero la notte... Qualche anno fa il governo aveva fatto installare un enorme adattatore climatico e la temperatura si era attestata attorno ai venticinque... Qualcuno era riuscito a far rinvigorire la vegetazione, sfruttando l'acqua del lago con dei grossi canali, e orticelli e prati spuntavano un po' ovunque... Poi hanno portato via il lago, l'aridità ha riconquistato il verde e l'adattatore senza acqua non poteva funzionare... Così si è tornati al vecchio sistema assistenziale... Gli elicotteri arrivano ogni giovedì mattina e scaricano i pacchi con il cibo in quella buca là, poco prima delle montagne... Poi, di notte, la gente va a rifornirsi di quello che ha bisogno... Ogni tanto gli elicotteri non arrivano, ma nessuno protesta... In fondo il governo non è tenuto a fare questo, potrebbe benissimo lasciarli morire di fame... Comunque, a parte questi rari disservizi, qui tutto funziona per il meglio... Gli uomini in questo sogno vivono liberati dai dolori della realtà, lontano da un mondo con cui non hanno più alcun contatto... Solo certe notti si sentono provenire dalla strada principale, oltre la cortina di lamiera, i latrati di qualche cane schiacciato... Sono cani randagi, abbandonati da quelli che entrano... Finiscono stritolati sotto le gomme delle auto per inseguire un osso che rotola sulla strada... Qui non sono ammessi animali facinorosi".

La guardo esterrefatto, mentre un ronzio di corrente alternata fa da contraltare al silenzio e scivola via per un paio di minuti, nell'attesa che aggiunga qualcosa a questo agghiacciante racconto di cui ignoro le motivazioni. Poi, quando spazientito faccio per andarmene, lei finalmente fa:

"Quería entrar?" e, dopo una breve pausa "Vede, qui c'era il belvedere...". Io scuoto la testa alla mia cecità, mi avvicino e la spingo per terra. Il suo corpo si frantuma in cocci e schegge e la sua testa ruzzola dal precipizio, nel lago che non c'è.

Qui tutto è finto. Il terrore, l'angoscia, la libertà, la desolazione. Tutto perfettamente sagomato in polistirolo per nascondersi dietro a un paravento accomodante, chiudendo gli occhi per non mostrarlo alla coscienza. Io non ci casco. E basta dirselo perché, da uno squarcio nell'orizzonte colorato, appaiano la auto lucide e decappottate, i fuoristrada, la gente vestita a festa e la grande villa stile Settecento che trasuda sicumerico benessere. Ma adesso basta: ridici sopra...

Nadie: località montano-lacustre. Il buffet fa schifo, e le opere sono anche peggio.

E' una delle troppe domeniche a monopolio calcistico di Stato: giovani radioline che vagano teneramente avvinghiate -lei nella mano di lui, lui nelle mani di un Ciotti catalano che fa ciao-ciao dagli altoparlanti-, solitari contemplatori, genitori e prozii venuti a celebrare e a celebrarsi. Mi trovo a una esposizione di "Artisti Alternativi provenienti" declama il manifesto in quadricromia "da tutto il mondo" (il più straniero sarà un madrileño trapiantato sulla Costa Brava, che è come dire un friulano nel varesotto) che si tiene qualche centinaio di metri sopra le amate sponde di un lago tipo Lecco.

Costo del ticket 1.000 ptas. (leggi pesetas) a cranio, gli introiti in beneficenza alla C.R.E.P.A. (Casa de Reposo Española Para Arquitectos) -dove nessun architetto spagnolo, che abbia almeno una pallida idea della lingua italiana, c'ha, naturalmente, mai messo piede.

Non che mi interessasse particolarmente venirci, ma è il giorno dell'inaugurazione e speravo ci fosse un sortito buffet, e poi dovrei incrociare una vecchia conoscenza (è stato lui a invitarmi previa telefonata -ma come avrà fatto a sapere che ero qui? E chi gli ha dato il mio numero di telefono, che poi è quello di Agueda?) con cui scambiare quattro chiacchiere quattro, e due frittelle.

L'amico, non che espositore, è un remoto compagno di studi con padre spagnolo (sarà una decina d'anni che si è trasferito nella penisola Iberica) che mi è sempre stato sul cazzo. Una di quelle indomite mascherine anarchiche che, votate a una splendida carriera nel ramo Guadagno, calpesto e non guardo in faccia nessuno, fin dalla scuola dell'obbligo, finiscono per accettarsi per come sono subito dopo la prima crisi adolescenziale; ora pare si sia laureato in architettura.

Fin qui, poco male. Sono milioni ormai le personalità forgiate dagli stereotipi televisivi (Beautiful non più di un qualsiasi telegiornale) e infiltrate a inficiare, con la subcultura del potere camuffata dietro separé artistico-rivoluzionari, i pochi pochi spazi elargiti alle verità non contaminate dalle radiazioni economiche.

Il tragico viene quando scopro che la mela marcia ha intaccato tutto il cesto (Adamo sputò schifato, ma pare non sia servito a niente), o forse era l'ortolano marcio e truffaldino; sta di fatto che il resto della banda Spazio & Forme sembra ricavato dai cliché del rampantismo più becero, e, se le Forme lasciano a desiderare, lo Spazio, mi informano, è un colpo di mano di un'assessore socialista (zio di non so chi), che fa un retorico discorso sul rilancio dell'espressività, taglia un nastro rigorosamente patriota e poi svanisce nel nulla complottante da cui è arrivato.

Grandi auto, lussuosi vestiti, ori, laureati e laureandi in architettura (che deve essere una di quelle facoltà -come se fosse la facoltà, di pensiero, a forgiare l'artista, e non viceversa- che unisce la venalità della filigrana con la presunzione dell'arte); gli artisti sono tutto qui: esegeti del Consorzio Edile Ligresti & Co., di giorno, fautori di opere con pacata critica al capitalismo, la notte.

Molti i politici truccati da intenditori e anche qualche esperto d'arte rinomato dai circuiti massmedianici a sfogo programmato col suo seguito di giornalisti servili -Te~le Lecco, potrei dire, se fossi su luoghi più manzoniani.

"Venite siori e siore, venite!" e s'apre lo zoo safari, con le bestie che ti guardano malinconiche e rincoglionite (senza più nemmeno l'alibi che sia la droga a ridurle così), e tu che scendi dall'auto per nulla intimorito e, invece del mangime, getti merda un po' su tutte; non per dare spettacolo o per il medesimo snobismo capovolto, ma giusto per non dar adito al mondo di credere a una conciliazione del tuo spirito profondamente antidogmatico e antiarrivista, con le insanabili contraddizioni di queste belve perfettamente addomesticate, queste innocue fiere in giacca e cravatta Arpiedi, per lui, e ovali occhialoni Trussiciliani, per lei.

Giro e mi rigiro, mi lascio capovolgere dai conati dell'incredulità (lo so, non c'è limite al peggio, ma ogni volta capita che la mia speranza ci caschi dentro... precipitando), guardo e aspetto, ma del mio amico, in questa gabbia senza gabbia, nessuna traccia. E non verrà nemmeno più tardi, verrò a sapere solo domani che si è schiantato s'un tornante a qualche kilometro da qui, contro un carro a traino medievale che andava troppo lento e non lasciava passare la sua sete di arrivare primo fra tutti. Risultato: il fuoristrada nuovo da buttare, i danni da pagare al contadino, una frattura multipla alla clavicola -e poi dicono che dio non esiste! Ben gli sta! Almeno i giornalisti avranno qualcosa da scrivere, visto che sulle opere si può proprio dire pochino... e io non dovrò nemmeno crucciarmi sul come ha fatto a scovarmi.

Così mi tocca girare tutta la mostra da solo: tre piani di futilità che starebbero bene in un qualsiasi Grappeggiarredatutto (ma proprio tutto), non in una villa reale che si dà arie da museo.

Eppure nessuno che faccia una smorfia, non un commento di diniego.

No! Tutti compiaciuti in grandi "Oooh!" di commozione, avanzano di opera in opera chiedendo informazioni agli autori le cui risposte sfiorano, congiuntivi a parte, i commenti post-partita negli spogliatoi di un qualsiasi club calcistico... Anzi, no! non tutti. Uno spilungone senza -incredibile- radiolina, con una figurina accanto, mi fanno tirare un sospiro di sollievo mentre, scodinzolando l'occhio, li vedo avanzare palesemente disgustati -saranno la mia preda, senno che safari d'Egitto sarebbe?

"Allora che ne dite di questo mixage tra riciclaggio statunitense anni Quaranta e avanguardia andalusa?"

Loro, di spalle, voltano curiosi la testa o forse increduli che qualcuno abbia qualcos'altro da dire oltre a una esclamazione di miracoloso stupore, poi si scrutano -lei con la sua chioma da picchio canterino, lui col suo naso da pugil - perplessi, come a chiedersi: "Ma ce l'ha con noi?"

Rompo l'imbarazzo: "Ehi, guardate che la libertà di parola è ancora un diritto costituzionale; basta non gridare troppo!" e rido, buttando un po' di menta piperita nel ghiaccio in modo che si sciolga e li sciolga.

Lei allora allarga le labbra piegandole, poco convinta, in una specie di sorriso, con un po' di stira e ammira della cortesia forzata da un passato troppo volutamente cattolico che, abiurato, non ha lasciato nessun presente.

Lui, invece, nemmeno questo e, come se mi avesse scambiato per il più straccio dei giornalisti qui convenuti, fa: "Se non altro serve a capire dove siamo finiti!" lasciando che l'aria s'impregni dell'odore di una falcemartello bruciata ma senza alcun proposito di critica, nessuna accezione negativa o positiva, bensì una semplice e banale constatazione della realtà che certo non cercavo, e non volevo.

"Venite siori, venite, non spingete... Ecco alla vostra destra una coppia di una specie ancora sconosciuta"... ¿o forse il palese disgusto era solo un grugnito di disprezzo alla creatività della concorrenza?

Chiedo: "Non sarete mica artisti anche voi?" tanto per vedere con che carte stiamo giocando e a che gioco, visto che sono io di mazzo e dirigo la partita.

E lei, scuotendo la testa spelacchiata e tirando l'asse bello: "Artisti noi? per carità! Noi siamo ricercatori" e così anche Darwin è accontentato.

"Ricercatori di che? Qui al massimo potete trovare un Aiazzone originale!"

"Se sapessimo cosa cercare saremmo degli artisti" mette definitivamente in riga ogni mia provocazione esploratrice lui, dimostrando di non aver capito un cazzo rispetto alle origini del gesto artistico (un artista, quando è tale, non sa mai cosa cerca, viceversa è un bluff), e soprassedendo, ovviamente, all'intraducibile Aiazzone, lanciato più per far divertire i mie lettori, che per irritare loro. Ma certo non posso dire che non me la sia cercata: bella lì! E allungo la mano destra delle presentazioni.

Lei -la chiamerò Figurina Panini-: un esserino immortalato nel faccio e disfo dell'adrenalina volta alla proiezione tridimensionale che genera la montagna ma nasconde il topolino.

Lui -Secondo Carnera-: una vita a far cazzotti e poi, un giorno, crede di capire che quei suoi pugni non sarebbero mai serviti a niente e getta la spugna s'una casa di campagna, o in un convento di falsi Carmelitani scalzi.

Me la vedo scorrere nelle loro iridi questa bella storia d'amore gioioso e devastante.

Lui rosso, lei bianca, che si incrociano un giorno a un meeting sull'aborto, faccia a faccia fra consenso e dissenso di una o più cause che ormai hanno dato per perse e insieme lasciano le rispettive fazioni per andare a prendere un caffè in quel bar tanto chic, all'angolo fra la via Damasco e una filosofia che ancora fatico a individuare.

"Questo spazio è nostro" si smaschera a un certo punto lei, forse per frenarmi da tanto disgusto, mentre li invito a rifare per intero un altro giro, perché certo mi è sfuggito qualcosa e proprio non posso credere che sia tutto qui. "E qui noi ricerchiamo, siamo i testimoni di questa realtà che certo non ci entusiasma. Ogni giorno ne arrivano a decine di questi artisti che pensano di avere grandi idee, che invece sono idee ritrite e precotte"

Io spalanco gli occhi: delle volte l'ingenuità! "Ah, non avrei mai pensato che foste voi i proprietari!" e poi, gettando ogni ipocrisia latente "Ma come avete potuto accettare queste schifezze?"

"Ma cosa significa? ...sì, saranno anche schifezze, ma se hanno i soldi per pagare l'affitto, noi li facciamo esporre".

"Ma allora potevate aprire una pensione, no?! E poi, se finisce che può esporre solo chi ha i soldi, cha cazzo di fine fa l'arte come principio di contestazione della realtà?"

E lui, sorridendo di rincalzo: "Ma quale contestazione! La contestazione non esiste più, è superata, e quella che c'è non serve a niente. Il suo stesso significato ha perduto ogni senso, è stato risucchiato insieme ad ogni suo sinonimo"

La luce va calando fuori dai grandi finestroni reali e io ascolto esterrefatto e incredulo. Più per me, che pensavo di aver trovato degli alleati contro questo imbarbarimento, che per loro. Mi blocco sulla scala sontuosa tra un piano e l'altro.

"Allora, scusate, fatemi capire. Cosa cazzo vuol dire quel cartello che avete appeso fuori: Artisti Alternativi?! Qual'è l'alternativa, forse quella dell'accettazione?"

Secondo ride col fare arrogante di chi si è inventato una verità e pensa di possedere la Verità.

"Certo. Non solo la lotta non serve più a niente, ma anche qualsiasi altro obbiettivo è vanificato. La novità, le basi di un nuovo pensiero di sinistra che anche dentro il nostro spazio cerchiamo d'instaurare, sono proprio queste: a differenza di qualsiasi altra galleria d'arte noi non rappresentiamo noi stessi, ma quello che sta fuori dalla nostra porta d'ingresso"

"Sì, e così non fate altro che lasciarvi travolgere dagli obiettivi esterni, dalla logica del sistema che si riproduce fedelmente al vostro interno, annientando ogni possibilità di cambiamento"

"Ma quale cambiamento, nulla è mai cambiato e non cambierà mai niente. Bisogna capire questo per essere veramente liberi. Quando abbiamo deciso di prender questo spazio e metterlo a disposizione di chiunque volesse noleggiarlo, non avevamo nessun obbiettivo in mente, di tipo politico, voglio dire, ma anche culturale. L'unica cultura vera è quella dell'esterno e l'unico obbiettivo vero è quello di se stessi. Andare avanti senza scopo né direzioni, se non lo scopo e le direzioni del sé, affidandosi all'istinto di sopravvivenza, alla voglia di essere liberi che passa attraverso la crescita del nostro potere e esclude tutti coloro che non possono spingerci un po' più in là, verso un luogo che è l'Io, una terra di nessuno, un interstizio in cui respirare aria nuova e pura. Questo è l'unico presupposto che ti permette di essere veramente libero, di fare ciò che vuoi. Tutto il resto è già stato condannato dalla storia... Mai letto Max Stirner?"

Bum! E' come un colpo che mi sale dallo stomaco alle cervella. Trasecolo, sgomento, senza nemmeno la forza per replicare. ¿Quanti come loro avanzano verso una terra di nessuno: quella landa desolata e senza scopi, fini, obbiettivi... solo alla ricerca della propria egoistica libertà costruita sulla pelle degli altri? A me (che ho sempre preferito un buon nazista, spinto alla conquista del mondo attraverso lo sterminio di un'etnia, piuttosto che un inidentificabile Nessuno, che non sa dove andare, ma vuole solo accrescere smisuratamente il suo potere per arrivare sempre un po' più in là - perché il nazista mi è sempre sembrato meno pericoloso: visibile e, quindi, falcidiabile) sembra la filosofia più agghiacciante che abbia mai sentito. E se si dovesse diffondere (seee?), chi darà più voce all'operaio sfruttato, al soldato mandato a morire, all'innocente giustiziato, all'handicappato emarginato? Non ci sarà nessuno, perché, chi avrebbe potuto farlo, sarà sparito in una terra -appunto- di Nessuno, forse liberato, ma, certo, condannato a guardare, sull'unica terra vera (la nostra), l'agonia dei prigionieri che sono rimasti a lottare e non hanno mai pensato di evadere, o non l'hanno mai potuto fare... e poi, Stirner permettendo, fondare la propria causa sul nulla, non significa esattamente l'opposto? ¿O, in parole più semplici: gli interstizi non sono quella zona vuota tra un dente e l'altro dove il cibo si arresta e si forma la carie? Già, è proprio così. E allora, prima di dover consultare un dentista, me ne vado, senza salvare niente e nessuno, se non la splendida dea corvina che serve occhieggiando dietro al buffet. Ma, subito, mi dicono che è... vera! Appunto, vorrei urlare. Ma a che servirebbe? Questi bei signorini marcati Arpiedi, i miei aberranti e pericolosi ricercatori, non hanno letto Stirner: lo hanno interpretato (come a suo tempo fece l'Imbianchino), suggendone quello che più si addiceva alle loro speculazioni. Ma, anche a urlarglielo, sono talmente lontani dalla mia causa, che non lo capirebbero, mai.

Il nulla, quello vero, è un gioco che non ammette compromessi, viltà, mediazioni. Il gioco della macellazione del corpo e dell'intelletto consumati in un labirintico giro dell'oca verso il traguardo delle proprie voglie sottratte, a cui non si può certo partecipare da una terra di Nessuno o fra una portata di salmone appena toccato perché un po' troppo salato e un giro in cabriolet.

Esco, amareggiato e sconfitto come mai. Giro le chiavi nella Fiat 8e50 che, a proposito di sfiga, mi toccherà spingere per farla partire. Ma non chiamerò nessuno. Su questo hanno ragione loro: siamo soli come cani randagi; ci dividiamo l'incomprensibile osso dell'esistenza contendendocelo a morsi e, due, è già un'unità di troppo per la sopravvivenza delle nostre utopie. Comunque la macchina parte. Forse non tutto è perduto.

 

Massimo Silvano Galli

Vernisage cabriolet  

da: Forse io ho un'anima rossa -romanzo (1993) di Massimo Silvano Galli
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