Dolores aveva studiato per diventare santa. Ci aveva buttato le energie dell'infanzia e dell'adolescenza. Così come molti suoi coetanei avevano dedicato intere giornate ad altre passioni (Tonino, il figlio del portinaio, per esempio: anni e anni a sudare e soffrire sui campi di calcio), lei aveva passato le ore nel buio di stanze raccolte al silenzio: pregando sommessa, tessendo le trame e gli orditi che portano ansanti ai quadri aziendali di Dio. 

Sentiva... Ecco, sì, sentiva che qualcosa sarebbe successo. Un miracolo, un segno, qualcosa. 

Fin da bambina, quando ancora la parola faticava a costruirsi in cadenze regolari rispettando le doppie e gli accenti, già qualcosa di palpabile e estraneo arrivava a raccontarle visioni e parabole di una vita dedicata all'amore incombente e onnipresente. 

Dio era allora, nelle mani della piccola Dolores, un castello di tre lettere da appaltare con profitto agli increduli parenti, un gioco alternato di colori: il bianco, il rosso, il nero, da posare uno sopra all'altro per ricevere carezze di dolciumi. 

Dio era un gioco, il caso dominante tra rotte universali e combinazioni di cubi colorati, vergati per un lato da un segno d'alfabeto. 

Dio era la vita che dentro le cresceva e, insieme, il suo concetto d'infinito trovato sommando quelle lettere a vaghi precetti cellulari, progenitori della specie umana.

Era stato il vecchio zio Adolfino a captare quel segnale di precoce vocazione, un Natale di famiglie ritrovate attorno al tavolo ricavato dal medesimo albero genealogico. 

La piccola giocava nella stanza dei balocchi rivendicando un mondo lontano dalle tombole e le chiacchiere infinite. Partecipava con curioso sospetto alle rigide strutture dell'uomo urbanizzato: allungando le mani con passione di possesso, fagocitando gli alibi della conoscenza. 

Correvano allora quegli anni senza tempo propri dell'infanzia, gli anni in cui tutto passa attraverso la bocca nell'estremo tentativo di sentirsi partecipe di un esterno che, da millenni sverginato, fatica a congiungersi con un immaginario e incontaminato interno. La percezione degli occhi (ancora nebulosa) costretta a passare per il metal-detector delle labbra e le gengive per essere accettata al vaglio del sapere. 

Così era valso anche per quei cubi colorati, malianti d'intensità luminose e strani segni che i più esperti avrebbero detto d'alfabeto. Quei cubi assaporati col palmo della lingua e subito accettati nell'impeto dolce del legno lavorato. Quei cubi che (recente contributo di un didattico Babbo Natale) avrebbero segnato il destino monoteista della sua esistenza. 

Adolf, o il suo più appropriato diminutivo, era entrato nella stanza di Dolores risolvendo la perplessità popolare di congiungere alla nascita la sua pelle così prossima alla morte. 

"Amore" aveva declamato, sagomandosi nell'idiota incanto della smorfia con cui gli adulti son soliti avanzare qualsiasi pretesto di infante comunicazione "Ti piacciono i cubi che ti ha portato Babbo Natale? Eh, ti piacciono? Sì, ti piacciono?". 

Lei l'aveva guardato incuriosita, attraversando con quegli occhi d'incomprensibile candore gli anni stratificati sulle guance avvizzite del vecchio Adolfino, poi -a fatica- le manine paffutelle si erano posate a raccogliere la luce: bianco, rosso, nero... e un sorriso sbarazzino s'era aperto a sottintendere metafore di consapevolezza. 

Su quel sorriso era calato il silenzio.

Adolfino era uscito lentamente dalla stanza. Raccogliendo il fiato e l'emozione era apparso tra il vociare dei parenti: bianco in volto, gli occhi spiritati. 

"Adolf, che c'è, non ti senti bene?" aveva detto qualcuno cogliendo l"allucinazione che lo permeava. 

Adolfino aveva tentato di proferire, ma non una sillaba era riuscita a uscire dalla sua bocca. Una fitta l'aveva colto al petto, s'era portato una mano sul cuore e, ascendendo dal bianco al paonazzo, aveva fatto dietro-front, tornando lentamente verso la stanza della piccola. 

Tutti i parenti l'avevano seguito: chi preoccupato, chi incuriosito, come si segue una cane quando pare voglia mostrarci qualcosa. Poi, giunti nella stanza, avevano capito. 

Davanti al sorriso illuminato dell'infante si stagliava, in panciuti caratteri cubitali, il riassunto dell'onniscienza: Dio. 

"Guardate" era riuscito a estrarre dal fondo della gola l'Adolfino e poi, in un rantolo subacqueo, "È un miracolo!". 

Sarebbero state le sue ultime parole e l'inizio di una fulgida scalata alla santità per la piccola Dolores.

 

Massimo Silvano Galli

Santità rivelata   

da: Kyrie Eleison -romanzo (1996) di Massimo Silvano Galli
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