Le braccia levate sulla testa in una posizione di resa a priori: una bottiglia colma di schiumiglia nera in una mano, una "T" di plastica morsicata al centro nell'altra... avanzava. Avanzava e rideva senza cortesia o leccaculaggine: un sorriso d'oro di carie mai curate, una felicità tutta incomprensibilmente sua.

L'auto era un'utilitaria, di quelle comprate da un marito premuroso per lo shopping della sua signora. Era blu fiammante, come il sangue nelle vene della bella patentata, e luccicava sotto il sole con tutti i finestrini abbassati.

Lei aveva capelli neri, un tempo biondocenere, e un nome aggettivante, tipo Isadora o Annabella o tutti e due insieme, seguiti da un terzo e un quarto, tra cui anche quello della nonna: Mariateresa, che sposò il duca di un nobile casato francese; poi il cognome da ragazza: Di Castiglia.

Un'anagrafe importante e faticosa, ma che lei portava, o sopportava, con estrema leggerezza sotto lo chignon della chioma raccolta, dietro gli occhiali scuri dove lo sguardo si perdeva a rincorrere pensieri sconosciuti: gli invitati che sarebbero arrivati quella sera al grande party per il piccolo Piergiorgio, suo figlio, promosso agli esami di quinta elementare -forse.

Portava un vestito bianco, di una seta speciale che pareva cartavelina, ma non lasciava adito a volgari trasparenze. Era un bolerino terminante a punta, con qualche bottone in basso, mentre una spaccatura a "V" in alto mostrava disinvolta il contrasto colorato dal caldo sole dei tropici, le coste frastagliate di un paese lontano. Ma non era di marca. Aveva il sentore di tagli e cuciture fatti su misura; l'impronta di una mano esperta che ne aveva disegnato e sagomato le fattezze senza per questo lasciare alcuna traccia di sé.

Il suo corpo era immobile, altero nel vano della macchina. La schiena dritta. La fronte alta. Solo la sua mano si muoveva di tanto in tanto e saliva fino al viso, dove si fermava a lisciarsi il lobo di un orecchio tradendo l'ansia di un verde che durava a venire. L'altra -impassibile nella sua ossatura ferma e sicura- stringeva a pugno il volante.

Non c'erano anelli pacchiani sulle sue dita e le sue unghie non erano né troppo lunghe né spudoratamente smaltate. Erano biancoavorio, di un'estensione media, curata da abili manicure in qualche esclusivo centro estetico.

Erano mani perbene insomma, mani che mai, probabilmente, si erano scontrate con lo stridere di un piatto nell'acquitrino oleoso di certi dopocena. Riflettevano -anzi- gli astri lucenti delle lampade allogene impresse sulla sensibile pellicola della pelle a qualche asta d'antiquariato nepalese. Si agiteranno e combatteranno nell'aria, presumo, ma si vedeva che, per buona educazione più che per convinzione pedagogica, non avevano mai schiaffeggiato nessuno. Si vedeva che si erano sempre levate verso l'alto più che verso un eventuale prossimo e solo per alzare un prezzo, per assicurarsi un prestigio di acqueforti. Unghie arrotate, ecco; dita che hanno sentito scorrere il sangue altrui comodamente appoggiate a una poltrona fineimpero, mani che hanno imparato a sfiorare boccioli di rose ma che lasciavano intendere di non aver mai veramente abbracciato qualcuno, perché non sapevano stringere, perché si sarebbero frantumate come argilla.

"Signora...".

Isadora Annabella Mariateresa Aurora (sì, Aurora, perché no?) l'aveva visto da lontano, avvicinarsi con passo claudicante e i suoi occhi in un lampo avevano smesso di guardarsi dentro e si erano spalancati come una persiana sulla realtà. Si era allungata un poco sul sedile alla sua destra, cercando di alzare uno dei finestrini, ma le era sembrato volgare e a metà strada si era fermata, indecisa sul proseguire o tornare indietro.

"Signora...".

Ora era lì, con il corpo avvinghiato alla portiera e lo stridere antinomico di quel suono d'italiano naufragato nell'estasi di tanta eleganza e bellezza.

"Signora...".

"Non ho moneta!" aveva aperto le labbra spazientita, ma senza guardarlo. Poi il piede era scivolato sull'acceleratore e le ruote avevano fatto un mezzo giro, spostandosi un tantino in avanti.

Lui l'aveva seguita, amandola in silenzio.

"Allora mi dai un bacino?" aveva detto. E com'era bella la sua voce, perfetta la dizione.

Isadora aveva girato la faccia dall'altra parte, poi era stato un attimo.

Un brivido era scivolato sulla sua schiena. Il verde era scattato. Lei aveva schiacciato nervosa il pedale e l'auto era partita di slancio buttando il piccolo in mezzo alla strada.

Qualcuno si è sporto a curiosare dal finestrino mentre gomme stonate evitavano il corpo disteso.

"Tutto bene," ha detto il piccolo alzandosi per nulla turbato, cinicamente avvezzo. Poi ha sorriso agitando la mano alla bella Isadora che tremava tirando dalla sigaretta subito accesa, seguendo nuvole di fumo che l'avrebbero portata chissadove...

Massimo Silvano Galli

Piccoli uomini   

da: Altri Racconti -in "I democratici" numero 10, gennaio '96 di Massimo Silvano Galli
INDEX | RETURN | CONTACT