Questo racconto, ritratto di Daniele Oppi, è stato pubblicato nel 1994 in occasione della mostra dell'artista presso la Galleria Dissemination di Milano e presentato in breve piece teatrale dieci anni dopo, in quel di Robecchetto con Induno, durante la mostra antologica che il comune dedicava al suo celebre concittadino.


Katmandu: due passi a Est di Tangentopoli e un quarto d'orologio dal ventre incancrenito da ciminiere e fumi di quella che -oilà- sarà la Lumbardia...

Ma tutto sembra già così maledettamente nuovo: odori, sapori, il giallo gratinato della campagna che si perde ai lati della stradina brulla: fruscio di prati e selvaggina che tutto mi invaghisce.

Eppure... eppure è un viaggio che ho già fatto tante e tante di quelle volte che l'amorevole inchiostro della sorpresa non dovrebbe più stupirsi a nulla. Non ai giochi del frumento, non al grido intermittente delle nubi, non ai guizzi delle fonti...

Invece... invece l'unica cosa cui non si stupisce è ancora all'uomo-amico cui questa strada con ogni suo tentacolo inevitabilmente tende. L'uomo conosciuto migliaia d'ere fa che la facilità del superficiale vorrebbe, per contro, ancora tutto avvolto nella carta zuccherata della sorpresa. Ma non succede, non è mai successo. E in questa negazione si stempra la fatica dell'arte, il viaggio intermittente di ogni creatura che ti partorisce dentro filamenti di se stessa e, sudando, ramificandosi in metastasi esponenziali, diventa segno. Un segno che è sogno e, anzitutto, odore che sottolinea e traccia, indelebile, una storia a sé, lontano dalla storia, ma che, a ben vedere, è la sola storia narrabile - la sola che ci potrà salvare.

Io lo so, lo so benissimo. Ne conosco il dolore fino ai suoi confini più estremi. L'aroma dolce e caramellato che soave e ingannevole si dilegua dal cuore alla mente allampanando i denti, l'avventura delle ossa intrecciate a scricchiolare polvere per inchiostro. Ma non ho mai cercato di proteggermi da questa maledizione. Mi sono lasciato di volta in volta penetrare fino alla completa consunzione della carne. Mi sono lasciato ingravidare da tutti: nessuno escluso. Nemmeno l'omino ceruleo che ora la penna vola avida a cercare. L'omino che da millenni si porta appresso odori e sogni, balzellando in lungo e in largo sulle righe di una vita che è già letteratura e sola si racconta, rilegata in me, nella brossura dei gesti consueti che piano si rincorrono chiamandomi all'unisono da mondi sconosciuti, sciogliendosi in aneddoti gettati a capofitto nella centellinatura delle occasioni che si offrono al raccontarsi, ma che non basterebbe l'intera Enciclopedia Britannica -con tanto di aggiornamenti fino all'anno prossimo venturo- per contenerli tutti...

Ma ecco l'India con i suoi gatti e le sue oche sacre...

Daniele, il Guru, è lì che disseta piante e fiori attendendomi al varco di un appuntamento mai prefissato nella paziente consapevolezza di un tempo che non c'è, che non c'è mai stato e che, quindi, prima o poi sarebbe arrivato.

"Ciao, vecchio.", annuncia, in un giallo sorriso tirato dalla nicotina dell'inseparabile Alfasenza (gustocortotrinciatoforte). E con la mano dipinge in una stretta d'affetto la mia spalla, come quella prima volta, quando i nostri odori si trovarono e la mia placenta iniziò a covarlo dentro, nel suono della voce gravida di vite che piana mi narrava i perché, i percome e ogni profumo espanso di questo afrore che mi inonda.

Da allora saranno passati sì e no quattro anni scarsi, ma lui pare imbalsamato in una stitichezza di rughe che, a fatica, non l'ha cambiato affatto. Ancora il corpo esile da salice ridente s'incunea di riflessi sotto la pelata dove qualche dozzina di fili grigioneri s'adoprano a tramare il fine codino ocipitale e le basette rudi. Ancora i segni fertili nelle pupille chiare da diavolo incallito lasciati dall'amore della ridente Franca, la donna che ha incontrato in qualche vita fa e ha scelto le sue mani per tramandare il tempo. Ancora il nasone ruggine d'origine controllata da annate primordiali di barbera e i piedi a paperetta che ondeggiano attorno a corolle assetate su cui le spalle strette e le braccine fini si chinano a cercare oceani proni, scrutando dietro il muretto che divide la sua dimora (una cascina grande come la colonia estiva dell'Alfaromeo dove andavo da bambino) dal fluire del Naviglio Grande: meta di natanti e ciurme picnicchettare che col caldo giungono a rinfrescarsi in queste acque lanciate a improvvisare piroette di nostalgia e riflessione dove tratti boscosi del parco del Ticino si specchiano smarriti da tanto -apparente- candore e, più a Ovest, l'Agip conserva sotto chiave uno dei pochi giacimenti petroliferi della penisola per probabili futuri di magra combustibile.

"Ciao, vecchio.", rispondo al caloroso saluto, allungando la mano per sfiorarlo. "Come va?".

"Bene, caro. Bene. Pensavo venissi più tardi, se no non mi sarei messo a innaffiare i fiori.", mente, con la cordialità e la naturalezza di chi troppo sente in tondo e ha così poco tempo per pensare a se stesso che spesso si dimentica che esistono anche gli altri.

"Be', non ho fretta. Finisci pure.".

"Oh, no, no. Andiamo a berci un bel caffè". E piano mi sospinge verso la moschea struggendosi nell'ernia che lo costringe a zoppicare ma non ad operarsi.

Ho sempre avuto un certo ateo timore e profondo, religioso rispetto nel varcare l'atrio di questa casa che svogliata adempie all'ospitalità di creature umane per assolvere con maggior impeto alla sua intrinseca essenza di museo del kitsch, di biblioteca del tuttologismo, di centro di prima accoglienza per squattrinati, senzatetto e malati, veri o immaginari. Queste mura, un tempo sede di una delle prima comunità artistiche italiane, traboccano di magia: sono la metafora delle creature che si portano dentro, tra mattone e mattone: sole testimoni d'ogni passaggio di popoli e etnie, di piccoli e grandi uomini che insieme hanno eretto le pareti della storia: da padre Turoldo, all'ultimo dei blasfemi; da Maria Pia Garavaglia, a tutto il Partito Comunista Brasiliano in esilio; da Mogol e Battisti, alla Banda musicale di Malvaglio; da Antonio Porta, a imbianchini, imprenditori, lavavetri, miliardari, contadini; da asceti dell'esistenza macrobiotica, a tossici, alcolizzati, incalliti fumatori; da vergini damigelle e casti puritani, a autentiche troie, pornodivi, froci e lesbiche... Mani e piedi che sono passati, che hanno toccato e creato lasciando, ognuno, il segno di una presenza, i fumi d'un sapore che si respira intero e presto è diventato un mondo di folletti, di ninfe, streghe e maghi confusi nel colore di un nuovo medioevo di cui Daniele e Franca dispongono sui banchi le tarlate carte.

"Franca... Franca...", solletica l'aria lui. E Franca compare, come un genio dalla lampada: ultima testimonianza di tutti i popoli, lasciata come un graffito a gravitar nella tutina a fiori con magliettina nera e viso biancodolce da cui pendono gli occhiali miopi. Franca così difficile da narrare senza sbordare dai canoni d'ogni stereotipo umano. Franca che è una rubrica telefonica, una lavastoviglie, una boccetta d'ottimismo, una mamma, una moglie, un saggio pragmatismo, un'ape operaia, un'agenda per gli appuntamenti, una mappa del tesoro, un silenzio inconsueto e, spesso, una donna.

Daniele si avvicina sorridendo come un bimbo che ha ritrovato i suoi soldatini colorati e, gaio, la bacia sulla fronte.

"Ciao, Franca.", sorrido ai suoi capelli colpiti dal sole artificiale di un parrucchiere sbronzo. "Ma quand'é che porti quest'uomo all'ospedale?".

"Figurati. Lo sai com'è fatto. Nemmeno se gli pronosticassero l'amputazione della gamba ci andrebbe. E io, cosa vuoi che faccia? E' grande ormai. Pensa che si è fatto tutta una benda che si lega attorno al pisello. Tutta una cosa strana, che mi ha rotto anche tre collant e la cintura dell'accappatoio, i lacci delle scarpe. Oh, devi vederlo la mattina quando si alza! Sembra un samurai. Tutto impegnato davanti allo specchio".

"Certo.", precisa lui, fiero dell'intimità svelata. "Faccio come gli animali. Mi curo da solo." e poi, buttando il fumo della sigaretta: "Una volta avevamo una gatta. Ti ricordi Franca? Lulu, si chiamava. Poverina, aveva perso una zampa in una tagliola.".

E lei: "Dovevi vederla, era impressionante. Le era rimasta solo una piccola pallina proprio sotto il ginocchio. Noi l'abbiamo portata subito dal veterinario, ma sembrava non ci fosse niente da fare.".

E lui: "Invece, piano piano, leccandosi, con le erbe che sanno loro è riuscita a guarire. Andava in giro tutta orgogliosa con le sue tre zampe che sembrava ne avesse sei. Bisogna diffidare degli ospedali e dei medici. Anche per le malattie cosiddette incurabili. Qualsiasi cosa mi dovesse accadere io voglio morire nel mio letto.".

"Oh!", esclama lei, buttando due sottili cornini in cielo. "Non dirlo neanche per scherzo." e per tornare tra i vivi aggiunge: "Piuttosto hai bagnato anche nell'orto?".

"Si tesoro. Tutti i tuoi pomodorini e i peperoncini che stanno venendo su che è una meraviglia.", spalanca gli occhi estasiato, e tutto si illumina come un abete la notte di natale.

Io osservo, annoto e strido per questo amore che è rimasto intonso, che non è cambiato di una virgola, che sembra nato ieri. Questo amore che è sentimento, certo, ma soprattutto e prima di tutto progetto. Progetto di una vita costruita di giorno in giorno nell'eleganza barocca dell'utopia. Quell'utopia che si raggruma nelle viscere di Daniele, la sua totale visionarietà che, contro tutto e tutti, immancabilmente, prende corpo e s'aggira nello scarto quotidiano liberandosi in ogni gesto che ancora li avvicina col sapore e la forza di un abbraccio in cui si vede subito chi è dei due che, nei fatti, porta i pantaloni: perché se non ci fosse Franca, Daniele non esisterebbe -difficile il contrario.

La loro storia d'amore farebbe invidia a qualsiasi Paolo e Francesca, Swann e Odette, Paul e Virginie. Storia di fughe e di travestimenti, storia di pugnali e di pistole. Storia che m'illustrarono intorno a un tavolo di grappe un pomeriggio di fine marzo. Un pomeriggio assolato come questo, finito, come questo, a circumnavigare smaltate tazzine di caffè. Un pomeriggio azzurrino come questo in cui Daniele parla, parla, parla e, dalla sua bocca, ogni pretesto di vocaboli diventa l'ecolalia di un discorso della montagna inerpicabile per qualsiasi Maometto.

"Non bisogna aver paura della morte...", si siede e col caffè fumante tra le dita scure riprende il tema caro. Alza la testa per sorseggiare, mi guarda e poi... succede, e nulla si può fare. La parola, la magica, ineluttabile parola, ci inchioda sulla sedia, ci ruba il respiro, si impadronisce d'ogni facoltà e, avvolgendoci, ci getta lontano: lui nel gorgo narcisista di se stesso , io nella cascata vitalizzante delle sue parole e insieme tra le ciglia di mondi sconosciuti.

"...Io lo so perché sono morto al meno tre volte. La prima come pubblicitario, la seconda come pittore e la terza, be', la terza in un incidente d'auto. Mi sono addormentato a centottantallora, in autostrada, e mi sono risvegliato con la macchina completamente distrutta: illeso; tanto che nessuno voleva credere che fossi io alla guida. Anche se poi, come pittore, non sono mai morto, nel senso che non ho mai smesso di dipingere da quando avevo quattro anni. Diciamo che mi sono suicidato uccidendo la logica del mercato. E' successo quando sono tornato da New York, nel Sessantanove. Allora, qui eravamo in tanti: venti, venticinque ragazzi che avevano voglia di progettare e costruire un nuovo modo di vivere. Io, per un po', ho continuato a vendere quadri grazie al successo che avevo ottenuto negli Stati Uniti. Ma poi mi sono accorto che, insomma, un po' questi ragazzi ci marciavano, costretti ad aspettare che vendessi un quadro per tirare a campare. Ho capito che se il progetto voleva veramente partire dal ribaltamento della logica consumistica corrente, dovevo essere io per primo a darne il buon esempio. Così mi sono suicidato…".

Io lo guardo, mi azzitto e lascio dire con la deferenza dovuta alla saggezza. Non mi importa se ho già sentito tante di quelle volte questa storia che potrei benissimo esserne diventato il protagonista principale. So che lui sa (e mi guarda con complicità, forse chiedendo tacito l'assenso a questo suo ennesimo mo-nologo dell'autoincoronazione di sé e per sé) e solo la sua vanità lo ignora. La sua vanità spronata dalla mia brama di favole e racconti, incitata dal mio sguardo che, attento e rapito, si lascia circondare, stuprare e poi vibrare dal ripetersi mai monotono del Verbo che volat e nemmeno sulla carta si può fermare. Apro le orecchie e leggo, senza perdere un rigo, consapevole che la sola saggezza di un uomo sta chiusa nella grandezza, per altro pragmatica, del saper condividere il proprio corpo in tutti i tempi e con tutti i tempi: io ascolto Daniele Oppi e altro non sento che la contemporaneità dei miei giovani anni. Mastico le sue parole concitate che svolazzano nell'aria. Lo scruto inventarsi attimo dopo attimo: sdoppiarsi, triplicarsi, centuplicarsi in migliaia di infiniti se stesso in cui riesce a calarsi alla perfezione imitando voci e modi come il più scaltro dei Noschese lasciati a modulare un concerto di voci che di volta in volta getta sul tavolo come carte di un mazzo sempre diverso.

"…Ma la morte più vera, quella da cui forse in minor modo sono resuscitato, è stata quella del pubblicitario. Sai, una volta avevo una agenzia: Dani Pubblicità, si chiamava. Ho creato la linea Chicco, quella della grappa Bocchino, lo Zecchino d'oro, la Brooklyn, e tante, tante altre. Ma poi, un bel giorno, mi sono accorto che quella strada era giunta al suo epilogo." .

E finalmente io, mentre tira il fiatone dal filtro dell'Alfa e sdrucciola il naso nel fazzoletto: "Certo Dani, questo è molto bello, però l'altro ieri dovevi andare a Milano e hai fatto duemilalire di benzina perché non avevi i soldi. Voglio dire: non si butta mai giù un palazzo per costruirne uno nuovo, si prendono i soldi ricavati dal primo e con quelli si scavano nuove fondamenta. O no?".

"Forse caro. Ma... vedi, io credo molto a quella che chiamo: teoria dell'abbandono. Ho visto troppi uomini partire con grandi entusiasmi per idee e progetti e poi, dopo averli realizzati, rimanere incatenati alla logica dei guadagni, della lotta per la concorrenza, della difesa a oltranza di un patrimonio che si ingigantisce di giorno in giorno fino a sotterrarti completamente. No, preferisco morire e ricominciare, come ho fatto con la pubblicità, coi giornali comunali -che ho inventato negli anni settanta. Vedi, l'uomo ha bisogno solo di tre cose per vivere bene: di uno spazio adatto alle sue esigenze, del tempo necessario per crescere attraverso il proprio lavoro -non come necessità impostagli da un sistema che lo vuole in competizione con se stesso e con gli altri, ma come bisogno fisiologico strettamente correlato alle sue voglie - e, infine, del sogno, dei desideri. I soldi sono importanti, ma se mancano questi tre elementi sono praticamente inutili. Per questo, appena sono riuscito a liberarmi dalle mie catene, coi pochi soldi che avevo, sono venuto qui, in questa cascina dove spazio, tempo e sogno, coesistono in modo naturale e armonico...". E lungo le parole intanto scorre scorre questa strana vita che parla da sé e piano si stende srotolandosi a punti contratti sopra e sotto queste ree righe che mai potranno dire fino in fondo il resto che rimane di mille storie aggiunte e qui ahimé colpite dal morbo dell'artrite di pagine che non ho per raccontar di quando col titolo Barone e il nome Tino Ruggi passò sei mesi in Grecia, e ancora quando spoglio d'ogni aver terreno lasciò ritrarsi nudo per una rivista hard, oppure del suo viaggio nel sogno americano, delle messe nere nei gorghi del Brasile... Cose che si accalcano nella mia mente nuda e che dovrò lasciare ad altra miglior sede per ripiegarmi al suono della voce narrante.

"…Oggi si parla spesso di realtà virtuale. Ecco, io qui ho creato la mia realtà virtuale: ossia uno spazio e un tempo per creare il sogno, l'utopia, insomma. Quel qualcosa che fa parte di ognuno di noi e che non è mai irrealizzabile, come vorrebbe la superficialità del topico, ma il Senza Luogo, dal greco U-topos. E allora, capisci? nulla è irrealizzabile, ogni cosa si può fare, basta trovare il luogo adatto. Questo è il compito di un artista: trovare il luogo. Certo, per ogni luogo che si trova, poi, inevitabilmente, si finisce per morire un po'. E' come se una parte di se stessi se ne vada via con lui, ma se non fosse così non sarebbe affascinante. Forse è anche per questo che la morte non mi fa paura. Anche se poi, lo so benissimo, quando verrà il mio momento, questa certezza mi verrà sicuramente meno. Ma non mi preoccupo. La tragedia della morte è la stessa tragedia della nascita. Il bambino che sta nove mesi nell'utero materno e si chiede ad ogni istante cosa ci sarà fuori di lì, e poi, quando finalmente esce, urla, terrorizzato. Ecco, la morte non è che un secondo urlo. Un passaggio attraverso una porta che conduce in qualche posto che non è il paradiso, ma semplicemente un altro posto dove, ancora una volta, si ricomincia, da capo, un'altra avventura. Non si tratta di reincarnazione, ma semplicemente di un passaggio che ci porterà ancora in un luogo che forse è già questo.".

E io, ischerzando la sua vena oratoria da pulpito: "Secondo me, se fossi andato in India saresti già capace di fare miracoli.". E insieme ridiamo al ricordo recente dell'amico comune che ci volle ad accogliere il mito orientale di quel Sai Baba che tanto ha creato fedeli da stadio in questo nostro Occidente così bisognoso d'amore. Quel santone che se ne stava chiuso in una stanza: le gambe incrociate sul morbido letto, gli occhi chiusi, le mani giunte, mentre tutti i proseliti entravano piano, colmi di deferenza, e lì si inchinavano ricevendo in risposta il saggio assenso della sua santa testa che piano si abbassava e sola bastava a farli tornare alle loro dimore, contenti d'un gesto che -per un attimo appena- gli aveva promesso d'esistere. Io seguivo Daniele, sospeso nella mia suspances letteraria, e quando fu il nostro turno vidi il santone balzare per aria e corrergli incontro gridando sconvolto.

"Tu sei nel tempio. Tu sei nel tempio.", flautava la sua voce benedetta e poi, abbracciandolo: "Devi venire in India con me.".

Ma Daniele, come il più Guru dei Guru uscito con lode da un corso accelerato di protomisticismo sulle rive del Gange, aveva risposto: "Sono già in India.", mandando in visibilio il Saggio Orientale e l'invidia di tutti gli astanti presenti.

"Forse aveva ragione quel santone.". ride compiaciuto. "Sai, a volte mi guardo allo specchio e non mi vedo, e allora mi dico: ecco sei morto. Altre volte invece qualcosa di strettamente reale mi fa precipitare nella consapevolezza dell'esistere e allora corro a guardarmi allo specchio e lì, nudo, percepisco il passaggio del tempo, le trasformazioni del mio corpo. Guarda quell'abete, lì fuori. Era alto così quando l'abbiamo piantato. Guarda quanti nodi sulla corteccia: le rughe del tempo. Troppo spesso ci dimentichiamo di quanto siamo simili al mondo che ci circonda, non credi?" domanda e mi guarda, sorridendo, lasciando brillare gli occhietti grigi dietro le occhiaia scure; poi volta di scatto il tronco ancora a rimirar l'abete che stride al vento e s'allunga fino abbracciare un pioppo, mentre un'estate festosa e profana discende a inchiodare i segni del tramonto e tutto s'imbrillisce di efelidi celesti. "Guarda! Guarda come si amano!", soggiunge ispirato. E già Franca lo bacia e il ricordo si perde a quell'ultima volta, di ritorno dal santo, che giocava a zig-zag tra le strisce alternate e come un bimbo, con sguardo futuro, lanciava la folle, con calcolo attento, per misurare e fermarsi al semaforo senza schiacciare il freno, riservando alla mia fatal discrezione il segreto vitale della fanciullezza.

Siamo nati insieme io e Daniele Oppi. Lui sessant'anni fa, io: più o meno ieri. Vestiamo con galanza dissimili pensieri, ma della stessa marca: un po' consunta sulle ginocchia e sui gomiti, lasciati andare al verso del tessuto che ci irride, ma tanto ci congiunge che, se appena chiudo gli occhi, potrei benissimo essere suo padre e suo figlio… indistintamente.

 

Massimo Silvano Galli

IL GURO NEL GUADO  

da: Paesaggio Umano Con Artista -racconto (1993) di Massimo Silvano Galli
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