Tenero e buffo. Come scorre il tempo?

Solo ieri ero bambino, oggi quasi adulto in questa stagione di mezzo che chiamano adolescenza.

In un attimo: pensieri, voci, canzoni, piccole cose di tutti i giorni, domandano con insistenza cosa farò di me.

Non lo so.

Stilo progetti di notte in notte senza riuscire a trascinarli alla luce. Ho paura di quello che verrà, paura di scoprire un vuoto raggrumato di possibilità circolari, macchiate di zeri, fatte di niente.

Certezze? Poche. Quasi nessuna.

Esserci: l'ovvietà. Scrivere: la giustificazione. Niente più.

Ieri correvo dietro ad aquiloni colorati, oggi inseguo sogni pindarici su questo bus rottamato che lampeggia il suo monito luminoso FERMATA PRENOTATA, FERMATA-PRENOTATA, FERMATA PRENOTATA... che tanto non serve un cazzo perché siamo al capolinea e quindi si fermerebbe in ogni caso.

Una ragazza dei capelli corti e arancioni sta seduta in fondo al bus. Ha le orecchie semicoperte dalle cuffie di un mangianastri portatile e con la testa segue le onde della musica. Fuoriuscendo, le note di canzoni che non conosco, infrangono il monotono ronzio del motore in folle al semaforo rosso.

Accanto alla ragazza un uomo alto, con l'ombrello, legge attentamente la pagina sportiva di Repubblica. Ogni tanto alza lo sguardo, scruta il viso beato della ragazza, poi mi fissa, aspetta che anch'io l'ho adocchi e si rimmerge nella lettura.

È l'una di notte quando si aprono le porte della Sessanta e scendo in piazzale Cadorna.

Nevica.

Fiocchi grandi come ciambelle scendono fittissimi dal cielo che quasi pare non vi sia continuità nella loro caduta, ma che stiano sospesi per aria, uno attaccato all'altro: i primi ancorati alle nuvole, gli ultimi incollati alla terra.

Scendendo l'uomo con l'ombrello chiede se voglio ripararmi.

"No, grazie. Odio gli ombrelli," è la mia secca risposta.

La stazione delle F.N.M. è deserta. Cioè, ci sono io, qualche tossico e alcuni barboni sdraiati alla bell'e meglio sulle sedie della sala d'attesa o ridosso di qualche muro; altri, strafatti, trascinano i piedi verso i pochi passanti e mendicano dalla moneta. Di treni nemmeno a pagarne. L'ultimo, quello delle dodiciecinquanta, si è già volatilizzato e ora andrà riposarsi in qualche deposito lungo la tratta ferroviaria. Non mi resta che aspettare il pullman, quello che gira solo a quest'ora e si passa tutti paesini dell'hinterland.

Mi avvicino ad un tassista e scrocco una sigaretta. Lui fa qualche battuta stronza sul fatto che ci siano ancora dei tabaccai aperti, poi molla la preda -una Marlboro, niente male. L'accendo e mi allontano camminando all'indietro e guardando il piccolo parcheggio che con il giallo dei taxi e la neve fa proprio uno strano effetto: come il vomito.

È un freddo sabato notte Millenovecentottantatre e, dopo un palloso giro di parenti per via di certe mance natalizie, me ne sto tornando a casa.

Indosso un paio di calzoni stretti di velluto nero, un giubbotto di jeans con il pelo dentro, un berretto di lana -anch'esso nero- e un foulard di stoffa con il quale ho filtrato una miriade di cyloom, cosicché, l'originale sfondo bianco s'è trasformato in un labirintico agglomerato di intarsi giallomarronenicotina che si vanno a incrociare con i neri arabeschi in un tutto molto kitsch che proprio non sopporto, però ha un gradevole odorino di nero o marocco, così, mentre cammino, annuso e al contempo tiro dalla sigaretta e cercò di trattenere questo delizioso mixparfume il più possibile dentro i polmoni, che sembra anche di andare un po' fuori.

Mi siedo sui gradini di fronte all'entrata della metropolitana e controllo le scarpe da tennis fradice. Lascio che la neve di cada addosso e per parecchie volte riesco a intrappolarne alcuni fiocchi nella mano ed è bello sentire che si sciolgono, che diventano l'acqua, e poi faccio la parte del granduro e dico "Non hai scampo, ora ti liquefarò con i miei superpoteri," e rido, perché se mi sentisse qualcuno mi prenderebbe per pazzo.

Il tizio con l'ombrello torna alla carica. Mi saluta, chiedete d’accendere, poi si siede e comincia a parlare. Si chiama Enzo e ha trentacinque anni, quindi prosegue il suo monologo da ufficio anagrafe, ma le sue parole si perdono nei miei pensieri.

Guardo verso corso Sempione i travestiti e le prostitute unicamente coperte da minute pellicce sintetiche che mostrano il proprio sesso alle auto che sfrecciano verso il centro.

Enzo: "Come mai da queste parti?".

Silenzio.

Enzo: "Io abito in Bovisa. Sto aspettando il pullman. Anche tu aspetti il pullman?".

Faccio sì con la testa e mi chiedo se proprio non capisca che sta rompendo i coglioni.

Vicino alla fermata della Sessanta un gruppetto di giovani imbrattatori dipinge un murales con le bombolette spray. È una grossa testa di poliziotto con la bocca spalancata e dalla bocca esce una pistola fumante.

Enzo: "Hai voglia di bere qualcosa?".

Lo guardo e sorrido. È già più simpatico.

Enzo: "Che ne dici di qualcosa di caldo?" dice, e guarda il bar di fronte alla stazione.

Mi alzo e mi avvio senza dire niente. Enzo mi segue con l'ombrello aperto.

È un bel ragazzo e dimostra si e no venticinque anni. Ha folti capelli neri fissati con il gel, occhi verdi mandorlati e veste con disinvoltura un paio di calzoni grigi, probabilmente di marca, e un giaccone di renna.

Enzo: "Sei bagnato fradicio. Sei sicuro di odiare davvero gli ombrelli?".

"Non odio gli ombrelli," replico, tra il serio e il faceto, "odio quelli che si stanno sotto.".

Enzo: (sorride) "Ma allora parli, pensavo fossi muto!".

"Solo quando è necessario," dico, tornando serio.

Enzo: "Non è un buon motivo per beccarti una polmonite.".

Nemmeno mia madre mi fa più 'ste menate: "Cazzi miei! ".

Enzo: "Scusami..."

Pausa.

Enzo:"... Come ti chiami?".

Silenzio. Mi chiedo se non sia uno sbirro, fa troppe domande.

Enzo: "Peggio per te, non mi piace offrire da bere agli sconosciuti.".

Mi volto e accenno a tornare indietro.

Enzo: "Ma dai! Dove vai? Stavo scherzando.".

Mi avvio verso il bar. "Ivan," dico, bleffando.

Enzo: "Grazie.".

È arrivato l'inverno e lo si capisce soprattutto adesso che è notte e tutti se ne stanno rintanati in qualche locale.

Il bar sta chiudendo ed è semivuoto. Meglio, penso, non avrei sopportato di entrare in un locale affollato e sentirmi addosso lo sguardo e il chiacchierino della gente.

Gli ultimi clienti stanno uscendo, altri sostano vicino al registratore di cassa, pagano e scambiano battute con la cassiera, una bella ragazza dagli occhi neri e enormi.

Enzo: "Per me un whisky. Doppio.".

Il barista mi guarda e aspetta la mia ordinazione.

Enzo: "Prendi quello che vuoi.".

Improvvisamente non ho più voglia di niente. "No, niente," dico, "grazie lo stesso.".

Enzo mi lancia uno sguardo interrogativo.

Il ragazzo del bar si è tolto il grembiale e ha abbassato a metà la saracinesca. Un invito più o meno garbato ad andarcene fuori il più in fretta possibile.

"Scusa, il bagno?" chiedo alla cassiera.

Lei schiude le sue bellissime labbra e con un gran sorriso mi indica la strada. Sento il suo sguardo sul mio corpo mentre al lontano.

Il bagno è sporco e c’è puzzo di piscio.

Mi slaccio i pantaloni, tirò fuori l'uccello e mi appoggio al muro assaporandone il freddo.

Enzo arriva dopo qualche secondo. Mi guarda, s'inginocchia e me lo prende in bocca.

È la prima volta in mi chiedo perché lo sto facendo.

Guardo Enzo lì in terra con le labbra strette attorno al mio glande e sento la sua lingua che si muove lentamente a cerchio e sento il mio cazzo bagnato di saliva e vedo la sua testa andare avanti indietro ma il mio cazzo non diventa duro e Enzo mi guarda come dire che succede? e io non so cosa non vada forse tutto mi fa talmente schifo che nemmeno mi tira e allora mi dico che ormai ci sono e tanto vale a andare fino in fondo quindi mi concentro e mi immagino la cassiera al posto di Enzo con due labbra morbide e voluttuose e finalmente lo sento farsi turgido dentro la sua bocca e ansimo e capisco che sto godendo e quasi non ci posso credere allora apro gli occhi e lì lascio cadere di nuovo sopra il corpo di questo tizio che non so e lo vedo tutto sudato con le palpebre serrate e il mio sesso immerso nel suo cavo orale che ogni tanto fa pressione sulle guance quasi volesse lasciarle e mi torna in mente il murales del poliziotto e capisco che Enzo è veramente uno sbirro e il mio cazzo è la pistola e la pistola spara e io vengo eiaculo sborro con uno con un getto lunghissimo che fa un grande balzo verso l'alto e poi ricadde sul viso di Enzo sul pavimento sui calzoni.

Mi allaccio, in fretta, e esco.

La cassiera mi guarda, sorride e fa un cenno di saluto. Penso che abbia capito tutto e mi vergogno.

Vicino alla stazione il pullman con i fari accesi sta rombando per partire. Salgo di corsa, prendo un posto accanto al finestrino e mi ci affaccio.

Dietro il vetro il bar e Enzo che è appena uscito e si guarda in giro come se mi cercasse. Poi la saracinesca che affonda sul catrame con un tonfo metallico e il cuore che batte all'impazzata.

Guardo la città che trascorrere la notte dormendo per nascondersi e fingere di non vedere e i fiocchi di neve che ora cadono più flemmatici.

Oltre la piazza le luci dei locali e delle discoteche, dei club privati, dei salotti e dei night che festeggiano non so cosa fino a mattina. Nella stazione, i tossici e i barboni.

Il pullman parte e anche la piazza, le strade, gli edifici, i monumenti agli eroi, sembrano scappare.

Enzo si accende un'altra sigaretta. Ha l'ombrello chiuso e la neve piano gli scivola addosso.

 

Massimo Silvano Galli

Fermata prenotata     

da: Policromia del tempo - Racconti (1986) di Massimo Silvano Galli
INDEX | RETURN | CONTACT