E allora, del sogno di tutti i Grandi amori e delle Grandi amicizie, cosa rimane? Gli iscontri casuali dietro angoli imprevisti, le ombre ritrovate frugando nei cassetti colmi di memorie sacrificate. Questo rimane: nient'altro che ricordi sfumati, cicatrici che svaniscono nel tempo, affetti per sempre orbati del calore di un abbraccio, di carezze scambiate a piene mani.

Viola indossa una lunga gonna di cachemire con strani arabeschi e infiorescenze da cui spuntano gli stivali color cuoio e, sopra, un lupetto nero con le trecce sulle maniche. La sua pelle esala un profumo dolceamaro che mi penetra le narici inebriandomi. Ma sono le sole novità che noto nel suo aspetto immutato: una maggiore oculatezza nel vestirsi e questo odore acre che crea un alone di opulenza intorno alla sua esile figura.

"Una cola," ordina all'uomo riccio che è arrivato a chiedere cosa prendiamo. Poi con l'indice sale a strofinarsi l'occhio destro mentre le prime lacrime le colano sul rimmel annacquandolo. "Non imparerò mai," continua.

"E lei, cosa prende?" Chiede il barman guardandomi.

"Niente," rispondo.

Lui storce il naso.

"Niente grazie," ripeto seccato.

Quindi l'oste - della malora - se ne va.

Viola mi osserva e mi piace immaginare che scuota la testa.

"Come mai di nuovo da queste parti?" esordisce, rivolgendomi la parola per la prima volta da che siamo entrati.

Io fingo di non sentirla. Rovisto nella mente in cerca di ex-vicende che faticano a venire a galla. Penso a lei che fuma ancora come se fosse la prima sigaretta della sua vita: tossicchiando a ogni tiro, lasciando che il fumo le finisca negli occhi.

Infilo una mano nella tasca della giubba di jeans e ne estraggo un fazzoletto "Tieni" dico, porgendoglielo.

Viola lo afferra insieme alla mia mano e si sofferma su questa presa per un paio di secondi che sembrano interminabili. "Sono sempre la solita imbranata" si schernisce poi, asciugandosi.

Solo ora capisco che non avrei mai dovuto fermarla. Lei sarebbe scivolata inconsapevole dentro ai suoi passi e io mi sarei semplicemente voltato a mirare il suo altero sgambettio, senza correre il rischio di resuscitare cadaveri già sepolti, senza permettere che i poi di ogni fine arrivassero a inficiare questa storia ormai dimenticata.

"Viola! Viola!" ho invece urlato, lasciando che le emozioni sopraffacessero, come al solito, ogni riflessione. E ora eccomi qui, seduto in un locale anonimo, dietro un angolo fosco e demodé come ciò che rimane tra me e questa amante vagamente s...conosciuta agli occhi del presente.

"Ci lavoro" rispondo laconico alla sua curiosità.

Fuori la pioggia ticchetta sull'asfalto e nuvole nere passeggiano incuranti sopra gli ombrelli dei viandanti.

"Da quando?" prosegue l'atavico terzo grado, succhiando dalla cannuccia il miscuglio nerastro e scrutando dentro al bicchiere come a cercare qualcosa che non c'è - il limone?

"Più o meno dall'ultima volta che ci siamo visti" mento, sperando di farla passare come una battuta. Ma il mio tono è aspro, e la mia ironia fuori luogo non fa altro che allargarmi una ferita che, ora scopro, non si è rimarginata.

Lei appoggia le mani al bordo del tavolo e si dondola sulla sedia. I suoi gesti sono pregni della malinconia, odiosamente manifesta, di luoghi non più rivisti; ingrommati di una nostalgia sconfitta che torna ad aleggiare nel vuoto delle false trasparenze verbali che nascondono solo ricordi annebbiati.

"Solo sette anni?" replica, rispedendo al mittente la lettera - neanche aperta - della provocazione.

"Già, sette. Troppo pochi, non credi?" ritorno all'attacco continuando a flagellarmi mentre gli istanti grossolani dei nostri orgasmi clandestini compaiono come baluginii nel buio per poi fuggire oleosi dalla mente.

Viola mi guarda e non capisce. Non capisce perché l'ho fermata se ora sono irritato dalla sua presenza. Non capisce perché continui ad autoviolentarmi rintingendo le lame affilate del dolore nel sangue coagulato. Non capisce perché nel mio sguardo c'è sempre questa brama di denudare la gente, di ridurla a un nessuno spogliato di tutte le sue false morali, dei suoi perbenismi, delle sue ipocrisie, dei suoi opportunismi, delle sue correità. Non capisce perché non capisce.

Accendo una sigaretta e mi pare sia passata un'eternità da che siamo qui a recitare questa farsa, faticando a riporci nello spazio di un letto di cui piano abbiamo scordato contorni e segni.

Ma so perfettamente come sbarazzarmi di questo fastidio epidermico, perché so dove vuole arrivare e so cosa vuole che le chieda: di parlarmi di Lei!

E io lo farò, l'accontenterò per rimuoverla completamente e definitivamente, per ucciderla dentro di me una volta per tutte.

Gli iscontri casuali dopo mesi o anni - poco importa - passati a fingere di costruirsi addosso una storia (che regga), servono solo a permettere di rigurgitare tutto quello che sin'ora abbiamo fagocitato nella speranza lungimirante dell'incontro in cui avremmo defecato le nostre esistenze - sazie e inappetenti - per ricominciare ad abbuffarci.

Quindi: "L'hai poi fatta l'università?"

Lei (come pensavo non aspettava altro) inizia a frinire la sua biografia fatta di occasioni mancate, difficili decisioni, sforzi disumani e sempre, alla fine (e poi dicono che succede solo nelle favole - succede, succede !), grandi ricompense e gratificazioni.

"...E così non sapevo se fare medicina o biologia, allora mi sono presa un anno di tempo... cioè, sì, aiutavo mia madre in casa... mi serviva del tempo per pensare, capisci?"

Io la guardo e non ascolto. Chiudo gli occhi senza serrare le palpebre (non è difficile) e, poco a poco, scompare la sua chioma castana, le labbra sottili e frenetiche, il grazioso neo sotto il mento. I suoi ho fatto & non ho fatto diventano i cliché riciclati di tutte le piccoletragicomiche storie della storia del mondo: uguali, banali. Rumori in sottofondo ascoltati migliaia di volte, contro i quali - da tempo - ho generato gli opportuni anticorpi rendendomi immune.

Ella perde consistenza, trasfigura nelle molteplici tracce perdute delle anime inciampate sul mio cammino; diventa ognuna di loro, anzi, diventa tutte loro: un puzzle di visi fusi in quell'unicum che è poi l'arazzo senza cornice del mio passato.

"...eppure mi sono trovata bene, anche se... poi un giorno rividi Patrizia, te la ricordi? Ma sì..."

Anche la sua voce s'è mixata in un tremolio di vocalizzi incisi sui nastri distorti delle conoscenze: echi che si confondono e non appartengono più alle stesse voci, sussurri da decifrare mischiati nel bagno d'acquerello nero della reminescénza.

"...l'ultimo esame l'ho dato il mese scorso... no, no... Ero così felice che... così sono tornata ieri e adesso mi manca di discutere..."

Lei è la quintessenza dei miei dimenticati, il corpo che racchiude in sé tutti i mie abbandoni.

"E con Luca?" chiedo, interrompendo i suoi logorroici soliloqui, deciso a farla finire esaurendola in ogni suo argomento.

"Oh" dice, come di una cosa a cui dà scarsa importanza "è finita. Un anno fa ormai" poi mi guarda, mi guarda a lungo e sento che dirà qualcosa che mi farà imbestialire - come sempre le barriere interposte dalla lontananza si dissolvono quando ci si deve lasciare e ci si dice tutto, sperando di non doversi rincontrare, mai più.

"Pensi che sarebbe stato diverso se... sì, insomma, se mi fossi comportata... diversamente, se..."

"Lascia perdere" l'ammonisco.

"A volte mi domando perché sia così stupida, perché non rifletta prima di decidere. Perché io, lo sai no? Io, nonostante tutto, ti ho voluto bene e..."

Capisco che é giunto il momento della mia arringa e che non posso che essere spietato.

"Succede sempre così," dico "ci si pensa sempre dopo, quando ormai ci si è persi irrimediabilmente. Prima si cancellano accuratamente le orme altrui e poi, quando per caso si ritrovano in qualche fottuto sentiero, tutto ha già perso le concomitanze di un tempo e si finisce per rompere i coglioni con il proprio insulso microcosmo di cui non frega più niente a nessuno, con le proprie paranoie celate dietro una storia che tocca solo il narratore, in movimento dentro un universo che - se prima poteva essere perpendicolare a quello dell'interlocutore, perché in qualche modo vi si intersecava - ora è solo parallelo"

Lei mi guarda abbassando gli occhi fino a centrare il buio, nella speranza, forse, che tutto le scompaia, o per celare un pianto che dal ricordo svesta e tutto dilegui come la pioggia che fuori mi attende.

 

Massimo Silvano Galli

Dejevous    

da: Arazzi Senza Cornice -romanzo (1986) di Massimo Silvano Galli
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