Finalmente piovve. Dopo un'appiccicosa attesa di caldo afoso e soffocante, quella notte un tuono aprì danze alla pioggia.

Era molto tardi perché, poco prima, era parso a Alba di udire il campanile della chiesa battere cinque rintocchi. Ma non ne era certa.

Il silenzio di candele gocciolanti di quella che era stata la camera ardente s'era immedesimato in lei; la flebile fiammella avvolta nello straccio nero del buio era diventata il suo corpo sinuoso e ondeggiante, preda degli sbuffi d'umore che l'attraversavano improvvisi, specchio della fievole coscienza di tutto ciò che era accaduto cui era pervenuta sommando, indizio dopo indizio, i pezzi di un puzzle intricatissimo sparsi qua e là nella sua mente, dietro le tende tirate che creavano una barriera impenetrabile tra il chiaro e lo scuro trasformando il primo nel secondo: la menzogna nella verità.

E poi, da quando aveva fermato il vecchio pendolo a muro, unica eredità di un mondo antico e trapassato, le sembrava che stesse perdendo, impercettibilmente, la nozione del tempo, tanto che -per quanti sforzi facesse- non riusciva a ricordare se fossero passati mesi, giorni o, forse, anni da quando aveva optato per quella prigionia.

Avrebbe dovuto guardarsi allo specchio per accorgersi di quanto tempo fosse passato. Non giorni, né mesi, né anni, ma un tempo tutto interiore: secoli che, nel breve lasso di un istante, le erano precipitati addosso mutandola irrimediabilmente; lasciando, di quell'Alba fiduciosa e sorridente, forgiata nella solare demagogia del principio cosmico della sincerità, un esserino alla deriva, tutto piegato su se stesso, guardingo e misantropo, ritratto nella sua tana celata alle insidie del mondo.

Avrebbe dovuto guardarsi per accorgersi del lento suicidio in cui stava precipitando, la bara a fessure di un prestigiatore dilettante cui, spettacolo dopo spettacolo, aveva aggiunto e aggiungeva una lama acuminata. Ma il buio primordiale, le tenebre, le impedivano qualsiasi visione di se stessa che non fosse quella silhouette irraggiungibile, un po' sfuocata sui lati, sfibrata nella sua ondulazione sibillina, appesantita dai gesti di una consuetudine marmorea, svuotata d'ogni energia vitale.

In uno specchio ritto accanto al letto: oltre il buio, invisibile al suo sguardo, le rughe di un'altra Alba si allargavano su un corpo a lei estraneo, viravano dalla fronte alle palpebre e, tramontando ad Est di una fucina di macabri pensieri vuota d'operai cassaintegrati, si raggrinzivano sotto il mento.

"Sessantanni, miodio!" erano passati così in fretta portando con loro un fato maligno che ne aveva raddoppiato, triplicato, centuplicato la forza distruttrice abbrunando ogni barlume di -seppur fallace- felicità.

"Mia madre, mio padre... le ore spensierate del doposcuola, i giochi... ridere, parlare, discutere, lottare, Adele... ridere, ridere, ridere... Adele, Andrea, Adele... l'amore... Adele, perché?... era tutto finto, tutto falso, perché?...".

Eppure quella era stata la sua felicità: la sua vita di madre e di amante, di donna promotrice di un nuovo modo di vivere e pensare e forse, per tutto questo -se l'esistenza avesse potuto correre a ritroso in un punto inconsapevole del tempo alla velocità con cui delle volte vi giungeva la mente-, avrebbe preferito rimanere all'oscuro di tutto, proseguire la sua partita a carte scoperte senza sapere che il suo avversario stava barando, non aveva mai smesso di barare.

Ma non era successo e ora nulla avrebbe potuto riportarla su quell'isola di felicità che apparteneva per sempre al passato.

Così quel buio, quel vuoto perso sull'incoercibile ruota del tempo, era diventato la sua felicità. Lei, lì, nel nessun-dove che si era creata, fuggiasca dalla vita, in incognito da occhi menzogneri e suicidi, prigioniera di se stessa e del suo dolore. Le bastava. Anzi, delle volte, ne era persino affascinata.

Era come se le ore trascorressero fuori da lei e non la scalfissero. Si era identificata in un Dio cieco e questa parvenza di onnipotenza le dava la forza per non pensare a ciò che accadeva fuori, in quel mondo di bipedi che nascondevano mostri di bruttura, in quell'aria umida di delitti che però tanto la stregava e ancora le faceva provare l'angusto desiderio di levare il pesante telone nero che copriva le finestre per vedere se, attraverso le fessure oblique delle persiane, penetrasse o meno la luce.

Ma era l'ultima brama di vita che ancora le restava per isolarsi in sé, nell'antro artefatto di quella stanza pregna delle sue bramosie d'amore, dei suoi trasporti lascivi, della sua opulenza d'animo. Un'anima, la sua anima che l'annunciazione della verità aveva ridotto ad inconsistenti brandelli, aveva flagellato lasciando colare dai soffitti, dai pavimenti, dalle pareti un grumo di sangue infetto che, nell'istante stesso in cui Adele con un risolino ironico era spirata, era diventato il suo sangue.

Così, anche quella notte, appena udito il tuono e le gocce d'acqua che scrosciavano a ritmi alterni sul selciato, non poté resistere alla tentazione di spalancare le imposte.

C'era buio e la strada, per fortuna, era deserta. Solo un cane randagio si aggirava fradicio in cerca di un riparo.

Non riuscì a scorgerlo chiaramente ma lo sentiva lamentarsi e sembrava non fosse troppo distante dalla sua postazione.

Fuori un cielo cupo e corporeo sovrastava le case, e i campi corvini all'orizzonte ondeggiavano le loro chiome accatricchiate da un vento intarsiato di lampi.

Spense le candele per non essere scorta, tolse della carne da una scatoletta già aperta e la gettò al cane. Poi rimase seduta al davanzale a respirare a fondo cercando di seguire le gocce d'acqua per vedere dove andavano a cadere, per sentirle precipitare sui tetti con un tonfo ultimo e risolutore, sciogliersi in rigagnoli scomposti scivolando sulle tegole, fin dentro il baratro della grondaia e poi giù, nell'avvolgersi torrenziale dei canaletti, per smarrirsi infine nei tombini eterni di uno scarico che tanto ricordava il senso ultimo delle cose: un rincorrersi finito per poi perdersi, confondersi, sparire... Oppure in tutto questo c'era uno scopo, un principio celato nelle fogne del destino, un disegno preciso di tubi sotterranei, una scoperta? Non le importava. Erano domande che appartenevano ai vivi e lei non lo era, non più. Qualunque cosa fosse, ovunque finisse quella corsa ad ostacoli, sentì d'aver perduto ogni suspance agonistica.

Quando il temporale scemò rimase ancora per molto tempo ad osservare gli ultimi affluenti che si andavano radunando nel greto di un fiumiciattolo improvvisato e fu come se il suo sangue, la sua stessa vitalità, gorgogliasse con quell'acqua trascinando alla foce i detriti della sofferenza.

Pensò a Andrea, di là, nell'altra stanza, sfiancata dall'ennesima giornata di lacrime e singhiozzi col solo desiderio di partire per Zagabria all'affannosa ricerca di suo padre, del padre che non aveva mai conosciuto e che la paura di incontrarlo, forse, non le avrebbe mai fatto conoscere.

Pensò a Adele, alla donna che aveva amato e che, nonostante tutto, amava ancora. Adele che ora marciva sottoterra, divorata dai vermi.

Pensò alla sua corsa senza più alcun traguardo, alle volte che s'era arrestata a pochi metri dall'arrivo per il timore di ferire, per non vincere da sola, e sentì quel fiume straripante di dolore attraversarle il cuore e le viscere per poi sgorgarle, cascata di limpide gocce, dalle cavità lacrimali.

Chiuse la finestra che era quasi mattina. Un nuovo sole a Ovest di tutte le brutture si andava a levare solerte e indifferente. Cosa diceva? Che raccontava? Nulla, narrava con la solita enfasi il calore e gli odori delle messe di giugno mentre nella casa, piano, tornava a regnare la quieta ed espiante solitudine di una notte tutta interna, di un vuoto palpabile.

Lentamente salì sopra la sedia, stette per qualche secondo ad ascoltare il rumore sordo delle prime auto che slittavano sull'asfalto bagnato poi s'infilò il cappio e si lasciò andare...

"Tutto finito, tutto falso... ridere, parlare, discutere, giocare, lottare, Adele, Andrea, Adele... ridere, lottare, soffrire... perché?..."

Una smorfia le solcò leggermente le labbra e tutto cominciò a smarrirsi via veloce.

Prima di disertare definitivamente l'ultima gara sentì la ruspa dell'acédia scavarle nella mente sgravandola da ogni pesantezza; si sentì finalmente leggera e un attimo dopo aver chiuso gli occhi le parve di veder scorrere, nello specchio ritto accanto al letto, il cortometraggio dell'ultimo respiro...

 

Massimo Silvano Galli

A passo misurato  

da: Omopuzzle -romanzo (1992) di Massimo Silvano Galli
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