Rosario la intuisco da lontano, già seduta a uno dei tanti tavolini all'aperto, sorseggiare una birra al doppio malto... ma è il cuore che la vede e comincia a far tum tum.

Cercate di capirmi: non sto dicendo d'essere un qualsiasi Aleksej Ivanovic, e non mi butterei da un precipizio per nessuna Polina Aleksandrovna. Ma lei è tanto bella nei suoi calzoni neri, tipo seconda pelle vellutata, nel suo giubbettino di pelle nera anch'essa e foulard rosso che garrisce al vento, che sembra quasi una stella del cinema scappata dal set poco dopo il trucco. E poi, non per fare l'italiano a tutti i costi, ma giusto per dar sfogo alle mie innate speculazioni estetiche: qui le donne (Rosario in testa) -belle o brutte che siano- devono esser tutte diplomate in tecniche di seduzione urbana e lanciano certi sguardi fulminanti con l'occhio involato sulla punta delle palpebre e l'iride che sprofonda tra le tue pupille maliate, che ogni tuo elettrone si dissolve in vapori di passionalità e pare eruttare dai pori della pelle come fosse chiuso in un forno a microonde acceso-e-spento/spento-e-acceso ad ogni casuale incrocio oculare on the road -e pensare che l'once (Organizatión National Ciegos Españoles) qui è una potenza economica e, va da sé, politica...

La raggiungo di sorpresa da dietro le orecchie cingendole il collo con uno sguardo avvinghiante, ma senza emettere un suono, semplicemente annusando, con ogni poro della pelle, le essenze dei profumi d'amore che scivolano dal suo corpo verso una collana di beast-sellers in pre-edizione -o pre-erezione.

Lei alza e abbassa gli occhioni velati di imprevisti, incredula di fronte al mio eroico e temerario slancio nel vuoto delle incertezze, nel baratro incomprensibile dei sentimenti altrui, e scuote la testolina e alza le spalle sotto i lunghi capelli neri, come se un brivido di nonsoché (piacere? disgusto?) fosse passato a salutarla facendole digrignar le ossa.

Così poco avvezzo agli approcci dell'Amore, infastidito e nauseato da tutti quei gagà dello stupro verbale: lupi con la figa in testa come ornamento di grettezza senza un minimo di rispetto per la dignità altrui, mi limito a guardarla. Faccio mie le armi improprie di queste splendide creature iberiche dai manifesti desideri di passionalità, la catturo tra le mie visioni proprio come se fossi di fronte a uno sconosciuto capolavoro dell'arte contemporanea, a un'opera moderna di stucchi e colori polimaterici. Non faccio altro che guardarla. Spingo i miei occhi dentro ai suoi e lei li spalanca lasciandosi penetrare, solleticandomi con le ciglia lunghe di viziosi occhiolini d'intesa, poi, quando sono arrivato in fondo, divarica la bocca: forse per urlare o per ansimare o, semplicemente, per dare il la a una sinfonia di conversazioni che, certo, aveva preparato nei minimi dettagli ma che, ora, non riesce a dirigere, confusa com'è dalla mia confusione. E allora stiamo lì, pietrificati come statue di sale accarezzate dal vento, naufragate dalla storia tra gli scavi remoti di questo muto gioco di energie vitali.

Ci violentiamo con gli occhi. Ci fotografiamo millimetro per millimetro, sacrificandoci sull'altare di pensieri prevedibili ma talmente devastanti, da risultare sconosciuti. Quasi che le parole non servissero, come se potessero costituire una barriera inutile e insormontabile a confessioni che le nari allargate in flebili sospiri e gli impercettibili movimenti della lingua sulle labbra, si sono già scambiate. E' l'amore? mi chiedo. L'amore che si sta preparando a divorare il tempo e lo spazio liberandoci da una solitudine secolare? Non so, mi devo contraddire. Forse è troppo presto per capire e, inverosimilmente, non voglio trovare nessun appiglio per andare oltre questi sguardi, perché adesso voglio che sia amore o nient'altro. Ma allora la mia mano dovrebbe allungarsi per raggiungere al rallenty le sue nocche secche, così, il polso irrigidito, si slaccerebbe da un'immobilità glaciale e i palmi sudati si troverebbero fianco a fianco per un contatto tra popoli extraterrestri dispensati da ferite e improvvise amputazioni di guerre passate senza vincitori né vinti. Ma non succede.

Presto. Troppo presto, un orologio squittisce: la sua agendina elettronica che segnala un appuntamento programmato: un seminario sull'amor cortese? una funzione liturgica per il dio Kama? non capisco, ma, via... e ci lasciamo andare senza compromettere il silenzio, seguendoci fino a scomparire dentro ai nostri destini, per sempre denudati l'uno dell'altro.

 

Massimo Silvano Galli

Hoy la suerte puede verte  

da: Forse io ho un'anima rossa -romanzo (1993) di Massimo Silvano Galli
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