Cammino...

...Fu mio zio Anacleto, l'anarchico, a portare Pepe Pereira l'acrobata e i suoi compagni circensi: Pancho il giocoliere, José il funambolo e Maria il pagliaccio, alla cascina del nonno Elia. Una mattina di fine giugno arrivò alzando polveroni di ghiaia nel piccolo cortiletto (da anni in affitto, come la casa e il resto dei campi, alla rurale famiglia Di Prizio a cui lo zio Anacleto apparteneva in qualità di fratello del nonno) nella sua Daf cartadazucchero con il freno, la frizione e l'acceleratore sul volante, per via delle gambe che gli erano marcite in Spagna durante la guerra civile. Era stato proprio lì, tra riunioni, sparatorie, attentati, utopie e illusioni che avevano deviato verso la terra dei conigli migliaia di libertari europei, che mio zio e Pepe si erano conosciuti.

"Uniti per sempre dalla stessa raffica di mitra" aveva detto Anacleto, presentandocelo, con quel suo vocione rauco di lunghi avana dal sapore castriano. Bossoli marchiati a fuoco con la griffe reazionaria della repressione che avevano tolto a entrambi ogni speranza di proseguire la lotta dietro la trincea, donando a uno la stasi di una paraplegia inderogabile (con gran consolazione -a dire il vero- di tutta la nostra famiglia, che già si aspettava di vederselo recapitare cadavere per posta), e uno zoppichio perenne all'altro. Due uomini forti e coraggiosi che la sorte aveva esiliato s'una carrozzella, lontano dalla propria terra, in balia delle proprie ideologie e di quella fede che un mondo sempre più rassegnato a conservare andava, poco a poco, ripugnando: emarginando i dissonanti, relegandoli dietro le sbarre di quella voglia di giustizia che la storia aveva chiamato utopia, suggerendone, con le armi in pugno, la sua irrealizzabilità; ma che, proprio per questo, rimaneva lucida e continuava a scorrere imperterrita nelle loro vene, zampillava negli occhi in fermento da cui scaturivano grandezze di principi etici e morali che, al loro passaggio, esalavano l'aria.

Fu allora, credo, che iniziai a dipingere la mia anima di rosso. Qualcosa mi scoppiò dentro, come una bomba atomica sull'Hiroshima dei fideismi umani, e il cielo, il mio limpidissimo e coloratissimo cielo, si sverginò di sangue fluorescente, aprendo piccole e grandi labbra a nuove libagioni.

Respiravo. Respiravo... e le parole -tutte le parole- ad un tratto si dissolsero. Allora non servì più trattenere il fiato: il rosso mi entrò nei polmoni, si insediò a mia insaputa tra gli alveoli dei miei piccoli quattro anni, mi penetrò nelle ossa ramificandosi esponenzialmente.

Respiravo. Respiravo le parole, le parole gridate a squarciagola, voglio dire. Tutte le parole spese, consumate nell'attesa che questa marea di Io profferiti a dismisura, si infrangesse sul mar Caspio delle mie sragioni: sommergendo pagine e pagine di battigie filosofiche falsamente libertarie, tingendosi -appunto- di quel rosso che inconsapevolmente fagocitavo, fagocitavo tutto.

...Di primavera arrivavano i carri, scendevano sulle nostre pianure per affrontare le città costiere. Un anno saltava addosso all'altro e io crescevo. Quattro anni, cinque anni, sei anni. Le sere attorno al fuoco dopo gli spettacoli, le grandi tavolate, i discorsi ostinati: "Compañero, hermano mío. Lenin ha dicho... Marx ha dicho...". Frasi dimenticate in qualche antro della memoria in cui, mentre cammino, scavo e scavo, ma mi sfuggono i confini. Tutto apparentemente si è dissolto, dimenticato, e rimangono solo le emozioni. Rimane il rumore di un vulcano che gorgoglia dentro, annunciando al mondo che ha vissuto senza saper spiegare come; annunciando che un giorno erutterà di ricordi, ricordi per ora ancora troppo bui da cui solo evapora, in fumi, il suono falsato dal tempo della voce di Pepe. Quella voce che a fatica si schiudeva tra gli incisivi, sgusciando in un italiano fanciullesco che tradiva le rughe inspessitisi sul viso, dietro lo sguardo sottile e lacustre di chi non è riuscito a concretizzare, nell'altezza del suo fisico, l'altezza dei suoi ideali. Di chi ha trascinato la propria giovinezza su e giù per il sentiero della storia e è consapevole di aver perduto solo una battaglia, non la guerra. Pepe alto alto, marziano venuto da lande sconosciute a darmi, per la prima volta, la coscienza di un mondo che esisteva veramente al di là di quel ristretto orizzonte mentale dove il mio sguardo riusciva ad arrivare. L'esistenza di un mondo dove uomini e donne si alzavano ogni mattino per combattere una guerriglia cominciata all'inizio della commerciabilità del mondo e che, forse, non avrebbe mai avuto fine: la lotta della fame, dell'ingiustizia, dello sfruttamento, la lotta per una libertà negata dal lavoro, dalle leggi, dal denaro. Pepe, il mio grande amico Pepe che, senza dire nulla, un giorno, di nascosto da tutti, mi portò là, in alto, sul trapezio e, sul principio della paura (perché la libertà fa paura) e della gioia (perché la libertà è gioia), là, dove questa sfera rotonda che imperterrita gira e gira sulla roulette truccata di un dio infame, appare piccola piccola, lui mi spiegò Marx e Lenin semplicemente lanciandomi nel vuoto, lasciandomi volare...

"El pajaro Griffón se vestia de gris y la niña kikirikí perdía su blancor y su forma allí... Marx, Lenin, Bakunin, Engels, Majakovskij... dimenticati tutto piccola bambina kikirikì, ora sai volare, ricordati solo questo: non lasciare che nessuno ti trascini al suolo...".

No, non lo permetterò. E allora scavo, cammino e scavo, e altri fumi evaporano lasciando comparire il viso di Pancho: andaluso scuro scuro, con gli occhi profondi e inquieti, che rideva sempre come un bimbo stupito e grato alle mille novità che ogni giorno la vita donava al suo sguardo bonario. Pancho grandi mani, enormi e pelose, mani da orco che quando mi stringevano sembravano nascondermi come una sigaretta tra le sue dita. Pancho: le lunghe camminate dalla casa del nonno fino alla foce del fiume che attraversava la vallata e divideva la nostra proprietà d'affittuari da quella dei Faggio. Il fiume dove spesso eravamo andati a pescare trote e lucci che allora sguazzavano ancora in acque limpide e vive, finendo poi sempre per buttare le canne abbandonandoci a tuffi e giochi d'acqua. Pancho: pieno di vita, sicuro come la sua risata roboante che le cose da lì a poco sarebbero mutate e che la giustizia avrebbe sopraffatto l'orrore. Pancho che non fece in tempo a vedere cosa sarebbe successo e il secondo anno che il circo approdò sulle nostre terre, lo spettacolo si aprì senza di lui. Piansi, piansi tanto quell'anno, piansi ogni volta che il circo andava in scena e la sua assenza si faceva pesante nei mie piccoli pensieri, e in quella assenza, nell'assenza del sorriso di quel primo grande amico che svaniva dalla mia vita, scoprii la morte e capii come, d'un tratto, anche i più grandi sogni si possono frantumare. Oggi invece, ritornandoci, mi aggira nella mente il dubbio cattivo che quella morte sia stata per lui il minore dei mali. Penso a tutti quelli ancora in vita, a tutti quelli che hanno combattuto, che hanno visto i loro fratelli cadere sotto i colpi di fucile credendo, fino all'ultimo respiro, che la loro morte sarebbe valsa affinché l'uomo acquistasse la ragione della sopravvivenza contrapposta a quella dell'autodistruzione. Penso a quelli che hanno vissuto tutto questo e ora sono qui, mischiati in mezzo a noi, senza più forze né parole, aspettando una morte che non arriva e con la perplessità con cui i vivi son soliti ingigantire la vita dei morti, mi chiedo se Pancho avrebbe fatto questa fine o avrebbe continuato a combattere fino all'ultimo dei suoi giorni. Non so. Siamo così perfetti e perfettibili, così capaci di adattarci a tutto, che forse anche lui, se fosse ancora vivo, sarebbe qua: impotente e immobile, come noi e i suoi compagni superstiti, ma non ci posso credere...

E allora scavo, cammino e scavo, e altri e più densi fumi escono da questo vulcano di memorie smarrite. Un rigagnolo di lava rossa e incandescente: José castigliano puro e malinconico, taciturno e scontroso a cui -ci raccontò Pepe- avevano violentato e ucciso la moglie, una notte che era andato a una riunione e lei era rimasta a leggere un libro sdraiata sul divano, e forse l'avevano visto uscire, lo stavano curando. Non era mai riuscito a perdonarselo. Passava le giornate a disperarsi vagando fino alla piccola boscaglia dove si metteva sotto un albero a leggere e rileggere quel libro che aveva trovato accanto al corpo dell'amore. José: piccolino, magrolino, con una lunga cicatrice proprio sotto il collo. L'unico degli amici spagnoli con cui non ero riuscito a legare e che, nella mia giovane semplicità, forse detestavo anche. Così scarno, a differenza degli altri, di attenzioni e di affettuosità nei miei confronti e nei confronti del mondo e, quindi, ai miei occhi così estraneo a quei suoi compagni fatti di tutt'altra pasta. José di cui altro non mi è rimasto che una piccola frase, che avevo dimenticato e che solo qualche anno fa a Parigi, durante una festa, mi ha ripercorso la mente quando un tale Raymond, tra un piatto e l'altro, mi ha raccontato della paella più buona che avesse mai mangiato: "Da un certo José che aveva un ristorantino di specialità spagnole nel quartiere latino", disgraziatamente deceduto l'anno precedente. E' stato in quel momento, di fronte alla scoperta del tutto arbitraria della morte di José (se poi si trattasse veramente di lui non l'ho mai appurato), che quella frase, dopo decenni, è tornata ad affiorare nei miei pensieri: "Il problema non è tanto pensare alla morte, quanto pensare a cosa fare fino a quel giorno...". E in un lampo ho rivisto questo adagio scavato sulla porta d'entrata della sua roulotte, che lui stesso, in un barlume di affettuosità -se non ricordo male-, mi aveva tradotto. Me lo sono scritto su un foglietto e me lo porto sempre con me nel portafogli. Ogni tanto rileggerlo mi fa sentire meglio, mi dà la forza per non pensare a tutte le insicurezze e le precarietà, le paure di questa mia vita vagabonda, lanciata come un razzo senza ritorno verso la frontiera dei miei sogni che incendiano il sorriso e l'ironia sulla superficialità dell'uomo comune, così attento a circondarsi di certezze: economie palpabili, boe affettive; quell'uomo a cui devo apparire come un pazzo, un pazzo che troppo presto ha visto il binario morto che dal primo vagito porta all'ultimo sospiro e, troppo presto, ha deciso che ovunque andasse il treno che su quel binario porta da un capolinea all'altro, lui l'avrebbe lasciato correre alla deriva dei suoi desideri... Così scavo, cammino verso i miei sogni e tra i fumi scavo, scavo fin quando dalla terra affiora il corpo di Maria.

"Hijo, niño hermoso!" sento la sua voce che ancora mi accarezza, le sue dita che mi trattavano come un figlio.

Maria sempre attenta a dove mettevo le mani quando mi ritiravo con lei nel piccolo stanzino per osservarla cucinare, e lì, tra le stoviglie e i fuochi, mi fermavo ad ascoltare le sue brame di uomini che impazienti le bruciavano la carne mai violata, mentre cercava (con eccellenti risultati che nei primi anni delle scuole dell'obbligo mi crearono non pochi problemi) di insegnarmi il castigliano. Maria: bella mora dai seni materni e il naso aquilino che quando si vestiva da pagliaccio, con quel cerone bianco e i puffi rossi sulle guance, trasformava il suo viso in un fumetto tutto sberleffi e risa. Maria che aveva perso entrambi i genitori durante la guerra e dentro la tristezza dei suoi diciottanni, piano, aveva preso la strada del confine. La notte divisa da una barriera, la notte metà spagnola e metà francese: il passato e il futuro che giocavano l'ultima partita con le carte di un passaporto falso. Pepe, Pancho e José li aveva conosciuti lì, quella stessa notte, e era stata sua l'idea di trasformare quell'incontro tra fuggiaschi senza prospettive, in un gruppetto di funamboli ambulanti che avrebbero vagato per l'Europa raccogliendo i soldi per sopravvivere e per finanziare i pochi compagni che ancora godevano di una certa libertà sulla terra Iberica. Maria che rincontrerò (delle volte il destino...) qualche mese prima di partire verso questa terza e divertita crociata del mio narrare. Io che esco dal perbenismo intellettualoide (sic) del caffè Giubbe Rosse di Firenze, dove ero andato a presentare un mio libro (il primo), e lei che con gli occhi spalancati mi si fa incontro scrutando il mio viso come qualcosa di già visto e, tuttavia, sconosciuto. Non poteva sfuggirmi.

"Maria!" ho urlato e l'ho abbracciata senza aggiungere altro. E lei allora mi ha riconosciuto, è scoppiata in lacrime, non ci credeva... E camminando nel caldo afoso della sera, mentre i turisti consumavano le ultime chiese e gli indigeni si aprivano alla leggera frescura del Lung'Arno, ha lasciato che la sua vita le corresse sulle labbra facendomi partecipe delle sue giornate così lontane dal passato. Giornate vestite con abiti leggeri da signora sposata con un argentino, da signora nella sua casa di Bahía Blanca dove si è trasferita da qualche anno... E io, milanese capitato per caso a Firenze che incontra, dopo almeno ventanni, una sua amica spagnola -di cui andrà a scrivere- che ora vive in Argentina, ho creduto fosse proprio uno di quegli scherzi del destino che sfiorando i limiti di una non-casualità, non dovevo proprio lasciarmi scappare. Ma forse mi sono sbagliato. Forse mi sarei dovuto astenere. Troppo in fretta ho scoperto che quella signora che mi stava di fronte non era più la Maria che avevo conosciuto, abilmente sostituita, dall'ingordigia del tempo, con una donna appesantita dalla vita e dal lavoro, tradita da un'allegria forzata sotto una parrucca castana che non nascondeva la calvizia di origine chemioterapica. Troppo in fretta ho visto il tempo scorrermi davanti agli occhi, ho sentito il peso delle lotte farsi greve sulla mia pelle ancora giovane e inesperta. Tutte quelle energie elevate un tempo a cambiare il mondo, ora riversate sotto una parrucca, ancora e per sempre in lotta contro la morte... la stessa morte di sempre. E non demordere e sperare che qualcosa prima o poi succeda, e è sempre la stessa speranza, sempre la stessa lotta. Dov'era la Maria che avevo conosciuto? La donna che sognava Che Guevara della rivolta che la rapissero per cambiare insieme, con il loro amore guerrigliero, le sorti dell'umanità? Ora era tutta sotto una parrucca che la vita le aveva imposto come un'investitura feudale, una carica mortale che la stava portando via per sempre, dentro una bufera lenta e improvvisa a cui, ancora per poco, si terrà attaccata, come ai braccioli della sedia del piccolo bar dove c'eravamo rifugiati a distruggere l'afa e la sete e dove io (dopo avergli raccontato quelle quattro cose che fanno della mia vita la mia vita), le ho chiesto di Pepe e le ho detto che l'avevo ritrovato e che sarei andato a trovarlo. Sì, le ho mentito o, quantomeno, non le ho raccontato tutta la verità. Ma sarei disposto a farlo di nuovo, subito, perché il suo viso s'è tutto illuminato e per un attimo, nel ricordo del passato, è sembrata tornare quella che era. Così, insieme, abbiamo rintracciato e ricostruito le vicende, le immagini delle nostre vite prima intrecciate e, poi, separate: il giorno del loro arrivo sulla vecchia Daf dello zio Anacleto, le serate intorno al fuoco con la chitarra e la voce di Pepe, la volta che Pancho si innamorò di quella ricciolina bruna e andò sotto la sua finestra armato di fisarmonica a cantarle una serenata e invece della bella venne fuori il padre che era pure maresciallo dei carabinieri e per parecchi giorni ci fu un gran casino e macchine degli sbirri che ogni due per tre arrivavano al tendone a controllare permessi e passaporti, il silenzio e la sofferenza di José e la volta che Maria si lasciò cadere tra le braccia del giovane postino e la mia gelosia quando gli scoprii fare l'amore dietro il pagliaio, la morte di Pancho, la loro partenza, la mia sofferenza e poi il suo matrimonio con quell'argentino conosciuto a Plaça Real in una notte d'estate.

"Con Pepe e gli altri ci siamo sentiti molte volte anche dopo che mi sono trasferita in Argentina" molte lettere, qualche telefonata... poi il lavoro, la vita che diventa sempre più difficile... lei che, qualche anno fa, è fuggita da Buenos Aires e nel trasloco ho perso i loro indirizzi, forse anche loro il suo... perché anche gli affetti più grandi, piano piano, vanno scomparendo, naufragati dalle ingenze dell'esistere... e allora figuratevi gli ideali, le impalpabili utopie. Ma è stato verso la fine, quando la mia birra stava per lasciare come un ricordo la sua schiumiglia bianca, che ho sentito il vento della storia passarmi addosso con maggior voracità e strappare via ogni cosa.

"Com'eravamo ingenui." ha detto, con un mezzo sorriso tra il malinconico e il divertito "Volevamo cambiare il mondo, guarda cos'è diventato. E la Spagna... siamo tornati per ricominciare da capo, per ricostruire di nuovo e invece era già tutto programmato, tutto pronto per ripartire allo stesso identico modo".

Poi, prima che me ne andassi, mentre il chiacchierìo degli astanti si levava sui nostri discorsi castigliani e un vento più fresco sembrava levigarle la pelle quasi cancellandola nel male che la stava corrodendo, mi ha guardato con un'espressione di terrore, come se, da un momento all'altro, mi avesse voluto dire di tutto il suo malessere. Mi sono chinato per abbracciarla, per non farla volare via, e è stato allora che ho sentito una lacrima calda scivolarmi sul collo.

"Se vedi Pepe" ha detto "digli che vorrei sentirlo, che ho tanta voglia di sentirlo che..." poi le parole le si sono bloccate in gola, di fronte alla morte che le rubava il futuro "Anzi, no, non dirgli niente... forse gli faccio una sorpresa!" ha cercato di sorridere...

E scavo e scavo, cammino e dipano il fumo con le mani, ma non c'è nient'altro dietro la cortina. Dopo quasi vent'anni da quel primo e magico incontro che si sarebbe rivelato tanto importante per la mia vita, quei ricordi così lontani si sono perduti (ricordi che alcuni amici più anziani, mi assicurano, torneranno a farsi limpidi e precisi con l'avanzare del tempo) mischiandosi nella memoria dei visi e delle storie, degli incontri che giorno dopo giorno hanno segnato il mio arrancare tra le pieghe dell'esistenza. Però quella parola: utopia, il tempo non è riuscito a cancellarla, lasciando che si insediasse irrimediabilmente nella mia mente intrecciata alle memorie, alle emozioni, alle vicende di quei giorni, secondo come furono nella realtà o, quantomeno, in quella realtà in cui, anno dopo anno, la mia fantasia ha aggiunto e sottratto particolari, segnando, tra l'una e l'altra, una linea di continuità che a ogni risveglio mi sforzo di non spezzare cercando un po' di rosso nei volti di coloro che incontro lungo il...

Cammino...

 

Massimo Silvano Galli

Circo in esilio   

da: Forse io ho un'anima rossa -romanzo (1992) di Massimo Silvano Galli
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