È un uomo in ombra. È l'ombra di un uomo. Ma esiste. C'è! Come Dio sulle autostrade. O, come Dio, tanto l'ho immaginato e demonizzato che ho finito col farlo esistere veramente. Comunque è lì, da qualche parte: dietro una finestra, un edificio, qualcosa... E mi guarda, mi segue, mi osserva, mi spia. Sa chi sono, perché sono qui...

È successo questa notte, quando il sogno un'altra volta si è arreso ai miei tornanti e, virando le sue braccia di paesaggi intrusi, ha sguainato la lingua assorbendo fiotti di saliva e di presagi.

Io ero immobile. Il mio corpo lucido, patinato, trasformato in una raccolta di Playman, prigioniero sopra lo scaffale di una libreria d'antiquariato, nascosto tra il terzo e il quarto volume dell'Enciclopedia Britannica e, sopra, occultato da decine e decine di mucchietti della Selezione Reader's Digest.

Lui camminava nervoso avanti e indietro. Guardava continuamente il telefono come se aspettasse la chiamata di qualcuno poi, di tanto in tanto, mi estraeva dalla mensola e, sfogliandomi le pagine d'epidermide sinuosa, scendeva con le dita a governare la turgidità del sesso. Poi il telefono ha squillato. Lui si è precipitato.

"Finalmente," ha detto. "Certo, certo, lo faccia passare.". E proprio in quell'istante ho varcato la soglia, sfoggiando sembianze decisamente più umane -anche se alcune pose osé, durante il presumibile trasporto, mi erano rimaste incollate creandomi un vestiario inusuale: un po' Moschino, un po' Kenzo.

Dentro, il grigio sovrastava e, nella penombra, si mischiava con il nero dettando forme e regole ai contorni delle tenebre.

"Ivano Mimosa?".

La voce greve e celata, ma da qualche parte doveva pur arrivare.

"Eccomi," ho detto, gettando gli occhi verso il baluginìo del suono, cercando di focalizzarne il viso, aspettando che le pupille si dilatassero adattandosi all'assenza della luce.

"Avanti. Entri. Non la mangia mica nessuno.".

Voce d'uomo, antica e gonfia, come lo scricchiolio dei mobili sopravvissuti agli anni e ai traslochi.

"Lei dice?".

Fissavo un punto nell'apparente vuoto sforzando le palpebre e le cornee e lì, improvviso, è comparso il perimetro del suo ovale e un profilo di naso, bocca e ciglia. Ma tutto era ancora nebuloso e un alone di mistero aleggiava sul mio sguardo come una cataratta.

Allora lui ha allungato una mano che io mi sono ben guardato dallo stringere, e un sorriso.

"Già, forse ha ragione lei," ha sussurrato. "Conoscersi è mangiarsi. Ma noi, miodio, non siamo nemmeno all'aperitivo.".

Voce che veniva da lontano calpestando le aiuole potate della storia, mutando gli eventi, trasformando ogni condizionale in un imperativo categorico.

E io, risoluto e già guardingo: "Ma quale aperitivo? Mi dica piuttosto che vuole! Che è 'sto buio? Perché sono qui?".

Altre ombre segnalavano il contorno degli arredi alternati con pignola e costosa precisione e, dietro quelle ante, sopra le scansie, s'intuiva la mestizia delle carte diligentemente archiviate, si palpava l'amara conserva dei ricordi avvizziti sotto sale, si annusava l'afrore di un potere meticolosamente corredato del superfluo e dell'indispensabile.

"Lo so. Lei non si fida di me, di quelli come me. Lei fa parte di quella categoria di uomini che pensano che quando qualcuno come me fa un gesto di solidarietà, un dono, ci sia per forza qualcosa di losco sotto, che poi vi chieda per forza qualcosa in cambio. No, non è così. Lei mi è simpatico e volevo aiutarla in qualche modo, ma non sapevo come.".

Silenzio, poi di nuovo: "Allora, beve qualcosa?".

Era vero, non mi fidavo di lui, di quelli come lui e, se ero ancora lì, se ancora recalcitravo nel magma dell'onirico, era solo per sfidare una curiosità ormai irrefrenabile: la sensazione che non esistesse, che dietro quel volto seminascosto dalla penombra non ci fosse nulla, che la sua figura altro non fosse che un'immagine ritagliata dalla tela di un quadro iperrealista.

"Acqua, grazie.".

Ma non c'erano risposte alla mia curiosità, se non le risposte che avrei potuto carpire a quell'ombra che mi solleticava le fantasie del cranio. Così, come un romantico tedesco, mi sono avvicinato e, diffidente ma eccitato, mi sono seduto sulla poltrona di cuoio e di metalli.

Lui stava in pedi, ciondolando un bicchiere tra le dita e, della mia postura, potevo aggiungere maggiori particolari alla sua fisionomia. Anzitutto le mani: come sgocciolate da un bagno di psoriasi. E poi la bocca: sottile e allungata in un sorriso bislacco; il naso: scivoloso, con una piccola gobba sul dorso, e i capelli: radi e grigi. Nient'altro.

"Lei pare conoscermi molto bene, ma io non so neanche chi sia. Come può pretendere fiducia?".

Ora, spostando leggermente l'asse del tronco, riuscivo persino a distinguerne il corpo: magro, con un po' di pancetta appena sotto l'ombelico, tipica di chi passa troppo tempo seduto. Le spalle strette, forse curve; e due gambine macilente, che tremolavano dalle caviglie ai femori, facendo garrire la gabardine di marca.

"Infatti, non la pretendo. Volevo solo... non mi fraintenda, semplicemente mi è sembrato... ecco... di ritrovare una parte di me, una parte, come dire... perduta.".

Parlava piano, misurando le parole, quasi andasse a cercarle una ad una e molto, molto indietro nel dizionario del tempo.

"So che le sembrerà strano, ma -vede- io e lei, tanti, troppi anni fa, eravamo... sì... uguali.".

"Uguali?!". Ho alzato gli occhi, sorpreso e spaventato, e ho visto quella carne avvicinarsi claudicando su un bastone improvvisamente comparso dalla magia del nero. "Che intende dire?".

Una luce ha invaso i pertugi di persiana, tagliando il volto del mio interlocutore come l'incrocio di una dissolvenza che piano si allargava a rivelare. A passo misurato, come in un corteo, uno ad uno, uscivano dall'anima del buio: i denti aguzzi di bianca ortodonzia, il baffo panciuto e folto (macchia penale sulla fedina della pelle eburnea), un neo tignoso e fuggitivo sopra la longitudine del collo, l'orecchio dirimpetto (molliccio e parabolico), la calva regione occipitale... E poi, lentamente, molto lentamente, con la penosa flemma di un tramonto che scompare, la luce ha diradato fondendo ogni scheggia in un sol puzzle.

Ho stretto gli occhi, come per fermarlo meglio nella cornice che sfumava, ma ormai non era che un punto nei miei occhi e le sue iridi erano le mie.

"Secondo lei, che intendo dire?". ha chiuso la rivista e me con lei, tastandosi un'ultima volta in mezzo alle gambe.

 

Massimo Silvano Galli

Anatomia di un presagio   

da: Forse io ho un'anima rossa -romanzo (1993) di Massimo Silvano Galli
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